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Tea Party Italia: dieci anni di lotta per le nostre libertà, oggi più che mai sotto attacco

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Il 20 maggio 2010, esattamente dieci anni fa, veniva fondato il Tea Party Italia, un anno dopo l’originale movimento Tea Party americano. Il gruppo “grassroot” americano cosa chiedeva? Meno tasse, meno spesa pubblica, il rispetto della Costituzione più bella del mondo (senza virgolette), il rispetto dei diritti degli Stati da parte del governo federale. Era cresciuto nella contestazione all’amministrazione Obama, ma era già nato, alla fine del 2008, contro il bailout, il piano di salvataggio delle banche con soldi pubblici, voluto dall’amministrazione Bush. Nulla di partitico, dunque, ma un movimento di individui contro lo Stato massimo.

Se questo era il background americano, il movimento italiano, fondato su iniziativa del giovane David Mazzerelli, di Prato, aveva ragioni ancor più urgenti per cui battersi. La pressione fiscale americana non è mai stata superiore al 33 per cento in questi decenni. La pressione fiscale italiana è del 64 per cento ed è la più alta in Europa. All’epoca della nascita del Tea Party americano, il debito pubblico non superava ancora il 100 per cento del Pil. Quello italiano, negli stessi anni, veleggiava già sul 120 per cento del Pil. Stiamo parlando del 2010, quando al governo c’era Berlusconi, in teoria il più liberale sulla piazza. Destra o sinistra, dunque, sono concetti relativi.

Come negli Usa, il movimento Tea Party Italia è cresciuto dal basso, senza filiazioni partitiche. Non ci sono mai state grandi realtà industriali alle sue spalle. I primi eventi sono stati a Prato, città natia di Mazzerelli, poi Alessandria, Aversa, Forte dei Marmi, infine Torino, Catania e Milano (in Bocconi, assieme agli Studenti bocconiani liberali): prima le province e poi le grandi città. Nell’ottobre del 2010, dopo l’evento bocconiano, la sua voce ha trovato spazio anche sulla testata confindustriale, Il Sole24Ore.

Non è nato su iniziativa dei partiti, ma ha fatto da palestra a politici, che poi sono anche andati a governare città, eletti in consigli regionali e anche in Parlamento. Non è entrato direttamente nell’arena della politica politicante, ma ha fatto da controllore della politica, con l’iniziativa del “pledge” da firmare per qualunque candidato volesse promettere di non aumentare la pressione fiscale, né la spesa pubblica. Quando Mario Monti era presidente del Consiglio e godeva di un consenso oceanico (sulla carta), il Tea Party era la sua vera opposizione. Nella storia dei video virali è entrato sicuramente quello della puntata di Leader (condotto da Lucia Annunziata) in cui l’allora portavoce del Tea Party Italia, Giacomo Zucco, ha contestato punto per punto l’azione di governo montiana, sottolineandone tutte le enormi contraddizioni: un governo tecnico messo in piedi per razionalizzare i conti pubblici, su richiesta dell’Europa, all’atto pratico stava aumentando le tasse e la spesa.

È giusto parlarne al passato? Un po’ sì, perché dopo la fase di ascesa dal 2010 al 2013, è iniziata quella di “stanca”. Il Tea Party comunque vive e lotta con noi, soprattutto con un’opera di divulgazione culturale e dibattiti (con Davide Giacalone e Luca Ricolfi solo in questo mese di maggio) ed è molto attivo il Tea Party Lombardia, animato dall’avvocato Fabio Bertazzoli, che ogni mese organizza incontri con intellettuali liberali e movimenti politici locali. Anche in tempi di lockdown. Quel che manca, in questi anni, è la piazza. Il perché sia venuta a mancare, dopo la crescita dei primi tre anni, è l’eterno ritorno della storia del liberalismo. Nel 2013 la grande protesta italiana contro lo Stato tassatore di Monti poteva portare a una rivoluzione liberale o ad una populista; col trionfo del Movimento 5 Stelle ha vinto il populismo, che negli anni successivi ha monopolizzato le piazze.

Alla fine, però, l’ordine costruito da questa nuova élite, che parla in nome del popolo, a cosa ha portato? In questi due mesi abbiamo assistito alla più grande ondata repressiva della storia repubblicana. Non solo abbiamo tasse sempre più alte e un debito pubblico che ormai ha preso quota (attualmente è il 134 per cento del Pil, ma a fine anno è destinato ad aumentare ancora) e che graverà come un macigno sulle teste delle prossime generazioni, ma… non abbiamo letteralmente più potuto mettere il naso fuori di casa. Nemmeno i più radicali fra i tea-partigiani di 10 anni fa, avrebbero potuto prevedere la distopia in cui siamo vissuti, senza ribellarci, col pretesto dell’emergenza sanitaria. E che non è finita, perché la graziosa concessione di una riapertura, in questa Fase 2, è normata da mezzo migliaio di pagine di nuove regole. Se ci sono piccole e medie imprese che non riescono ad aprire di nuovo, non è tanto a causa della mancanza di liquidità, quanto per un eccesso di norme, scritte pensando solo alla grande impresa, talvolta contraddittorie e sempre più difficili da rispettare.

Non si tratta solo di misure emergenziali legate all’epidemia. I carabinieri che entrano in una chiesa ad interrompere una messa che pure rispetta le norme igieniche prescritte, oppure i vigili che entrano in un cimitero e interrompono un funerale, che pure è consentito dalla legge, non applicano “misure igienico-sanitarie d’emergenza”, ma stanno violando la libertà di culto. I vigili che multano i ristoratori in protesta, che pure rispettavano le norme di distanziamento e portavano la mascherina, non sono semplicemente “troppo zelanti”: stanno violando la libertà di assemblea. I carabinieri e i sanitari che buttano a terra e rinchiudono in un ospedale psichiatrico un cittadino che urla slogan contro il lockdown, non stanno semplicemente “eseguendo un Tso”, stanno violando la libertà di parola. Il diritto di proprietà è stato di fatto abolito: non si può più usufruire di una seconda casa, della propria azienda, della propria attività commerciale, a prescindere da quanto siano state rispettate le norme igienico-sanitarie. Tutto ciò sta avvenendo sotto i nostri occhi, magnificato da una stampa che non è mai stata così esplicitamente un mero megafono del potere. Con giornalisti che seguono le azioni dei tutori dell’ordine e vi partecipano attivamente, denunciando e sbeffeggiando i “furbetti” che son solo individui intenti a correre da soli, o a prendere il sole sulla spiaggia lontano da tutti.

Nessun autore di romanzi distopici avrebbe immaginato una simile perdita di libertà nell’Italia del 2020. “A dieci anni di distanza tanti ci dicono che servirebbe in questo momento”, dice David Mazzerelli del movimento che ha fondato: “Il Tea Party ha seminato molto ed è presente in tutte le coscienze degli uomini liberi. Torniamo a farci sentire in un momento speciale, nel momento in cui le libertà sono più attaccate che mai”. In altri Paesi i movimenti di “riapertura” ripropongono la causa della libertà. Negli Usa soprattutto, ma anche in Israele, in Olanda, in Germania, sono sempre più attivi e visibili i gruppi sociali che scendono in piazza, pur rispettando tutte le regole dettate dall’epidemia (distanza, mascherina, o in auto). Chiedono che lo Stato non ci prenda la nostra vita col pretesto di salvarla. I giornali ne parlano male: quindi è segno che hanno ragione. Forse è il momento che si muova qualcosa anche in Italia.

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