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La battaglia di Draghi non è per l’Euro ma per le riforme: l’ultimo dividendo del vincolo esterno

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Draghi ha presentato il RF-Recovery Fund nazionale (o Pnrr), il 27 aprile, descrivendolo come una grande mangiatoia democristiana, condita di riforme dei dettagli più cruenti delle quali egli ha tenuto il Parlamento all’oscuro.

La omissione più grande, però, la ha riservata ai tempi di incasso dei mitici euromiliardi. Ha detto al Parlamento di essere stato costretto a lasciargli pochissimo tempo per discutere il Recovery Plan nazionale, in quanto “la Commissione andrà sui mercati a fare la provvista per finanziare questo fondo intorno al mese di maggio-giugno, poi la finestra si chiuderà temporaneamente per l’estate e, quindi, se il Piano viene presentato prima, si ha accesso alla prima quota della provvista”, “avremmo potuto presentare il piano il 10 maggio, e i soldi li avremmo avuti dopo – non so se a giugno o addirittura dopo l’estate – quindi questo è il motivo di questi tempi molto stringenti”.

Ebbene, si tratta di affermazioni quantomeno azzardate.

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Il Recovery Fund europeo non è finanziato – Il commissario Gentiloni, comparso avanti alle Commissioni Finanze di Camera e Senato, ha speso parole di pietra riguardo l’esistenza stessa del mitico RF: “Condizione è che si raccolgano sufficienti ulteriori risorse proprie. Capaci di ripagare questo debito da qui al 2056. Il debito che viene contratto in questi cinque anni sui mercati (il debito comune, questi famosi 750 miliardi) avrà una maturità molto lunga e sarà rimborsato nel corso dei prossimi 30 anni. Come lo rimborsiamo?”. Già, come lo rimborsiamo? Sono allo studio un prelievo digitale europeo, ma sarebbero pochi soldi e ci esporrebbe al “rischio di misure ritorsive degli Stati Uniti” i quali, in cambio, vogliono tassare le multinazionali francesi del lusso; nonché un aggiustamento delle emissioni alla frontiera, ma col rischio che passino per misure protezionistiche.

A margine, giusto per non lasciare a Draghi speranza alcuna, Gentiloni ha legato il prelievo digitale ad un accordo sulla tassa minima globale: un livello minimo di tassa sulle imprese pari al 21 per cento, proposto dalla amministrazione Usa. Ha detto: “Dal nostro punto di vista, devono andare insieme, di pari passo: non si può accettare un via libera a uno senza avere, contemporaneamente, anche l’intesa sull’altro”. Ma, siccome la tassa minima globale “costituirebbe un problema certamente per alcuni Paesi dell’Unione” e, siccome “la competenza prevalente in materia di tassazione è nazionale”, ebbene di raccogliere sufficienti ulteriori risorse proprie non se ne parla.

Quindi, il debito del RF come lo rimborsiamo? “Andando a chiedere a ciascun Paese in base alla quantità di contributi che dà al bilancio europeo”, ha risposto Gentiloni. Ma con malizia. Perché sa benissimo che la Corte costituzionale tedesca di Karlsruhe (dando seguito agli argomenti che avevamo analizzato su Atlantico Quotidiano) testé ha dato inizio ad un giudizio sul RF ed avvertito che esso richiederà un lungo tempo, che gli argomenti dei ricorrenti non appaiono infondati e che, se questi ultimi ottenessero soddisfazione, “spetterebbe al governo federale, al Bundestag ed al Bundesrat ripristinare l’ordine costituzionale con tutti i mezzi a loro disposizione”, cioè smontare il RF. In altre parole, la garanzia irrevocabile tedesca, sulla quale si basa il RF, è solo provvisoriamente irrevocabile. Il che costituisce un bel problema perché, senza tale garanzia, le obbligazioni emesse dalla Ue per finanziarlo hanno un merito di credito sostanzialmente a metà fra l’Oat francese ed il Btp italiano.

Pure senza contare tale non-ratifica tedesca, resta che, sinora, alcuni Stati membri non hanno proprio ratificato e l’intero meccanismo si innesta a decorrere dal mese successivo al ricevimento dell’ultima notifica di ratifica (art. 12 – decisione 2020/2053).

Gentiloni ha poi fatto riferimento indiretto a Bce. Parlando di una “ripresa che si annuncia e che prenderà certamente corpo nella seconda parte di quest’anno”. Ripresa che non dipende dal RF, bensì dalla fine del lockdown: infatti, egli ha aggiunto, “è una ripresa alla cui qualità punta questo programma europeo straordinario”, cioè ha declassato il RF, da strumento per innescare la ripresa economica, a strumento per regolarne la qualità. Ripresa che si porta dietro l’inflazione: in Germania già in crescita verso il 3-4 per cento. Il che rende impossibile che le obbligazioni dell’Ue vengano acquisite da Bce, in quanto il divieto al finanziamento monetario degli Stati vale pure verso l’Unione (123 Tfeu) e può essere aggirato solo se l’inflazione è ben sotto il 2 per cento.

Insomma, chi vorrà acquistare le obbligazioni emesse dalla Unione per finanziare il RF, interrogherà prima Bruxelles, più o meno con queste parole: “Tu non puoi dirmi che mi rimborserai con i proventi delle tasse europee (perché non esistono), né con il resto del tuo bilancio (perché dovresti prima impegnarti a rinunciare agli altri capitoli di spesa), né con la garanzia irrevocabile degli Stati (perché la garanzia tedesca è solo provvisoriamente irrevocabile), né con i soldi di Bce (causa divieto al finanziamento monetario). Dunque, dimmi, com’è che mi vuoi rimborsare?”. Domanda non banale, visto che i versamenti saranno effettuati solo “compatibilmente con le risorse finanziarie disponibili” (Art.24 – regolamento 2021/241).

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Il Recovery Plan nazionale non è approvato – Pure il giorno in cui tali obbligazioni venissero effettivamente emesse e in volume non simbolico, lo stesso non è affatto detto che i soldi affluiscano all’Italia. Poiché, in mezzo, occorre che il Recovery Plan nazionale inviato da Draghi lo scorso 30 aprile sia approvato: prima dalla Commissione e poi, solo se la Commissione avrà espresso parere positivo, dal Consiglio dei ministri Ecofin a maggioranza qualificata (qui, senza freno di emergenza). La prima ha a disposizione 60 giorni, successivamente il secondo altri 30 giorni: per approvare, ovvero per “formulare osservazioni o richiedere informazioni supplementari” e concordare una proroga del termine temporale (art. 19 – regolamento 2021/241). Dipoi, i fondi possono essere erogati “entro, nella misura del possibile, due mesi dall’adozione, da parte della Commissione, dell’impegno giuridico” (art. 13 – regolamento 2021/241).

Dunque, pure se la Commissione approvasse il piano Draghi tel quel a fine giugno, comunque il Consiglio avrebbe tempo sino a fine luglio e l’anticipo potrebbe giungere entro fine settembre. Infatti, il ministro francese Le Maire ha parlato di “settembre”. Ma si tratterebbe di un caso estremamente fortunato.

Non è un segreto che, al piano Draghi, la Commissione abbia formulato e stia continuando a formulare osservazioni e pure di sostanza. E dovrà formalizzarle, entro la scadenza di fine giugno, chissà forse concordando con Roma una proroga del termine di presentazione, comunque informandone il Consiglio Ecofin e, con esso, il mondo intero. Ciò, in modo da consentire a Draghi di fare uso di tali osservazioni per forzare il Parlamento ad approvare riforme prive di adeguata base di consenso, eccezion fatta per l’esca rappresentata dalla grande mangiatoia democristiana. Ha scritto il Corriere: “I miliardi del Pnrr, nella logica del dare e avere, saranno lo strumento che potrà agevolare Draghi nel portare a termine la svolta”. Un assaggio si è avuto lunedì, con il ministro della giustizia Cartabia che scandiva: “Se opporremo resistenze ai cambiamenti, mancheremo gli obiettivi che la Commissione ci richiede … e quindi l’Italia dovrà restituire quella imponente cifra che l’Europa sta per immettere nella vita economica e sociale del Paese … chi si sottrae al cambiamento si dovrà assumere la responsabilità di mancare una occasione così decisiva per tutti”. Ed è solo l’inizio.

Di tutto ciò, Draghi si è mostrato perfettamente conscio, quando ha detto al Parlamento: “Non ho mai detto garantisco io, non è il mio stile”. Una breve battuta che serviva a negare l’evidenza che la Commissione non sia soddisfatta del di lui piano, ma che abbia accettato un accordo politico: Draghi ha avuto il permesso di inviarlo il 30 aprile, in cambio di future osservazioni che, quelle sì, egli ha garantito di rispettare. Come? Beh, con gli “strumenti legislativi: disegni di legge, leggi delega, decreti-legge” di riforma, che ha intenzione di far passare in Parlamento a tambur battente. Contando su maggioranze di volta in volta variabili (una volta più di destra, un’altra volta più di sinistra), ma sempre con lo stesso governo. Con ciò facendo impallidire il trasformismo di Depretis e riducendo definitivamente l’aula ad un bordello, nel senso di casa di tolleranza. Il tutto prima che sia giunto un solo centesimo.

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Le riforme per le riforme – Insomma, dei mitici euromiliardi cosa resterà? Le riforme. Nel suo entusiasmo per una “continuativa e sistematica opera di abrogazione e modifica delle norme che frenano la concorrenza, creano rendite di posizione, incidono negativamente sul benessere dei cittadini”, Draghi mostra l’innocenza di uno studente universitario al primo corso di economia aziendale. Convinto, come si dichiara, che “bisogna che la produttività aumenti e, a quel punto, avremo dei tassi di crescita ben più alti, speriamo, che in passato; che porteranno a un declino del rapporto tra debito pubblico e Pil”. Affermazione che contiene una curiosa contraddizione logica, giacché la produttività è il rapporto fra il prodotto venduto ed il lavoro impiegato: un rapporto che, in assenza di crescita, non può aumentare se non diminuendo il lavoro impiegato, cioè facendo più disoccupati, ovverosia alzando il rapporto tra debito pubblico e Pil.

Qui, i casi sono tre. Il primo caso è che Draghi creda a ciò che dice e che, quindi, immagini che le sole riforme bastino a convincere i mercati a fare il lavoro di Bce. Nel caso, sbaglia: solo col QE eterno il Btp si regge in piedi. D’altronde, tali riforme sono modellate sulle raccomandazioni di Bruxelles, a loro volta modellate sulle raccomandazioni del FMI. E le vicende americane dimostrano come, persino nel Paese che detta le raccomandazioni al FMI, i mercati non fanno più il lavoro della banca centrale.

Il secondo caso è che Draghi immagini che le sole riforme bastino a convincere Bce a fare il QE eterno. Pure in tal caso, sbaglia: con la ripresa economica e la conseguente inflazione, il QE eterno è impossibile. La ripresa rappresenta, per lui, un rischio: in quanto innescherebbe la fine degli acquisti di Bce e, quindi, la crisi del Btp che trasformerebbe Draghi in un Monti qualunque. Perciò, egli fa di tutto per rinviare la fine del lockdown … però nulla può contro l’inflazione in Germania.

Il terzo caso, è che Draghi sia semplicemente deciso a vincere la battaglia iniziata 30-40 anni fa. E non è la battaglia per l’Euro, bensì la battaglia per le riforme. V’è una grande differenza, fra lui ed i piddini: loro vogliono le riforme per l’Euro, lui ha voluto l’Euro per le riforme. Per Draghi l’Euro non è il fine, ma il mezzo. Al Parlamento ha detto: in ballo “è il destino del Paese, la misura di quello che sarà il suo ruolo nella comunità internazionale, la sua credibilità e la sua reputazione come fondatore dell’Unione europea e protagonista del mondo occidentale” … non dell’Euro. Rinviata, come abbiamo visto, qualunque erogazione del RF a settembre cioè alle elezioni tedesche, il nuovo Cancelliere (chiunque egli sia) pretenderà l’unica cosa che Draghi non può permettersi: la fine degli acquisti di Bce. Draghi sa che la fine del vincolo esterno si avvicina: perciò accelera sulle riforme e, in effetti, al Parlamento ha detto che, se le sue riforme venissero respinte, “forse non vi sarà più tempo”. Egli non fa le riforme per il RF, fa le riforme per le riforme. Vuole vincere la battaglia iniziata 30-40 anni fa. Le riforme saranno l’ultimo dividendo del vincolo esterno. Il prezzo che Draghi pretende per condurre (magari dal Quirinale) l’Italia (magari con la Francia) fuori dall’Euro (magari in un €sud).

Chi vuole l’Italia fuori dall’Euro e modellata sulle raccomandazioni del FMI, si rallegri. Chi vuole l’Italia fuori dall’Euro e modellata sulla Costituzione, si organizzi. Chi vuole l’Italia nell’Euro, si dia all’ippica.

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