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Diffidare della classe politica che vuole “rieducare” le masse e dei “dibattiti” pilotati sui social

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Tra un banco a rotelle ed una mascherina griffata, tra un flash-mob e la decapitazione di innocue statue, i nostri intellettuali d’azione che affollano la categoria dei “progressisti” sembrano aver capito tutto ciò che noi, derelitti stupidotti non abbiamo proprio assimilato. Nel Paese in cui un importante ministro – che preferirebbe essere chiamato “ministra” – parla della necessità di instaurare una “patnerscippi” (sic) con altri Paesi che affacciano sul Mediterraneo e ben poche sono ormai le novità a farci sobbalzare sulla sedia – per fortuna dei più, ancora priva di rotelle – quando assistiamo alla presentazione delle loro “rivoluzioni culturali”. Il teorema prevalente è il seguente: 1. non riusciamo a gestire decorosamente la situazione generale nel Paese? 2. È colpa degli italiani. 3. cambiamo la testa agli italiani adeguandoli alle nostre soluzioni. Va da sé che, ovunque si parli di rieducare chicchessia, il ruolo  decisivo è quello del ri-educatore. Tuttavia è la particella “ri-“ a destare ben più di un dubbio, se non ben più di un timore. Si accontentassero di “educare” ben poco sarebbe, anzi, ben venga l’educazione in ogni sua forma, almeno fintanto ci sia dato scegliere da chi riceverla. Ma il concetto di “ri-educazione”, talvolta persino scioccamente utilizzato tale e quale, dai salvatori della Patria, riporta alla mente periodi storici e movimenti che, tutti indistintamente, finirono nel sangue. Anche Francois “Papa Doc” Duvalier, il dittatore haitiano che, dal 1958 al 1970 armò i Tonton Macoutes per sterminare chiunque ritenesse un oppositore, aveva la fissa della rieducazione della popolazione dell’isola della quale si autoproclamò presidente. Annotiamo, per completezza, che anche un altro statista del novecento scrisse: “La propaganda efficace deve limitarsi a poche parole d’ordine martellate ininterrottamente finché entrino nelle teste e vi si fissino saldamente”; non pago, aggiungeva: “Le masse non sanno cosa farsene della libertà e, dovendone portare il peso, si sentono come abbandonate. Esse ammirano solo la forza”. Vi basti ricordare che portava i baffetti alla Charlot e che scrisse “Mein Kampf”.

Insomma, niente di nuovo, quando sentiamo parlare, oggi più che mai, della necessità di proporre un cambiamento di mentalità generalizzato, come lo schema del teorema cui sopra sembrerebbe suggerire. Semmai, potremmo dire che si trascura il suo primo punto, quello che parte dalla constatazione dell’incapacità di governare la situazione reale del Paese. La ri-educazione di massa non si basa oggi soltanto sulla propaganda ma è, comunque, sempre lo stesso l’obiettivo da perseguire. Se ai tempi di Hitler o di Papa Doc era propaganda di regime, ossia il nostrano Minculpop – e mai acronimo fu più azzeccato – oggi abbiamo ben altri strumenti, più subdoli e pervasivi. Laddove la sola propaganda non sortisca più effetti determinanti, soprattutto a causa della polverizzazione delle fonti d’informazione, la diffusione capillare della “giusta mentalità”, è oggi principalmente veicolata dai social media, che, almeno in teoria, dovrebbero partire dal basso, dal popolo. In realtà, con buona pace di Pavlov e dei suoi riflessi condizionati che studiò sui cani, l’input al dibattito mediatico non parte mai dal basso, bensì dallo stesso potere costituito, che vuole far credere che questa o quella necessità dei cittadini parta da loro stessi, mentre in realtà è stata abilmente pilotata. Un fervente popolo di boccaloni telematici nemmeno s’accorge di essere stato abilmente pungolato sui media per suscitare quel “dibbattito” (la doppia b non è un refuso) che si voleva suscitare per giustificare provvedimenti non sempre graditi o corretti. La scusante del popolo, che avrebbe sempre ragione, quello che richiede a gran voce quella riforma è patetica ma ancora efficace, come lo fu il “Gott mit uns”, un secolo fa.

Pur considerando che “il popolo” non infrequentemente ha torto marcio, semplicemente perché non conosce a fondo certe tematiche, dobbiamo pure riconoscere che la persona qualunque, considerata singolarmente, ha ben altre priorità (bollette da pagare, cartelle esattoriali, lavoro che non sempre c’è…) ed è soltanto marginalmente interessata al dibattito politico, mantenendo tuttavia una propensione a condividere qualsiasi movimento si proponga di cambiare uno status quo che non soddisfa affatto. Proprio in quella zona sfumata di italiani molto pragmatici ma fatalisti, sempre in cerca di un nuovo capo carismatico che ci porti fuori dalla buriana, trova il terreno di coltura ideale il germe della propaganda a costo zero, quella che gli stessi destinatari della stessa fanno a loro insaputa, sospingendo teorie lette per caso sui social, mai approfondite o verificate, considerate valide o errate a seconda dei “like” che hanno ottenuto. Non serve più lanciare i volantini dal biplano come fece D’Annunzio e poco otterrebbe oggi la suadente voce del Colonnello Stevens dalle frequenze di Radio Londra. Tutta roba del passato. Oggi la propaganda favorevole al governo di turno la facciamo proprio noi, se astutamente sobillati ed imboccati, perché non aspettiamo che il momento per dire la nostra, un po’ su tutto. E la contro-propaganda? Stesso meccanismo: basta un tweet o un post su Facebook a scatenare il delirio dei social. Poi ci si chiede ancora perché Zuckerberg, Dorsey, Bezos siano tra gli uomini più influenti del pianeta. Ma, fateci caso: e l’appunto non è di poco conto, non sono le idee personali di questo o quel patron dei social a fare la differenza. Quella la facciamo noi, lanciandoci a peso morto nelle mai genuine campagne sociali e politiche dei social media, contribuendo a diffondere “la qualunque”, come direbbe il comico Albanese. I riflessi condizionati dei cani di Ivan Pavlov vennero teorizzati negli ultimi anni dell’Ottocento, ma allora non c’erano i social.

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