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Con l’invasione islamica in Europa una guerra valoriale assai più ampia di quella dell’America di oggi

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È sempre divertente la nostra bella conduttrice di Otto e Mezzo, nella sua capacità di ricondurre il discorso su qualche giudizio pesante contro il populismo, che ovviamente non definisce se non attraverso il richiamo di leaders che lo interpreterebbero, con una citazione privilegiata di Salvini e di Trump. Non importa quale sia lo specifico argomento trattato, la lingua batte dove il dente duole, se c’è un colpevole questo è sempre lo stesso. Naturalmente la pandemia è stata non il piatto forte, ma il piatto unico servito in tavola dalla gioiosa brigata partecipante al talk show de La7, con una ossessiva concordanza sulla necessità di non politicizzarla, poi contradetta dalla solita rappresentazione del vero uomo nero: Salvini avrebbe brillato in una critica ballerina, prima contro poi pro misure restrittive; Trump avrebbe favorito l’espandersi della pandemia, con una ostinata astensione da qualsiasi politica di mitigazione.

Sul leader leghista non ci sono numeri che possono dare ragione o torto, visto che non è stato minimamente coinvolto dal duo Conte-Speranza, dunque il suo contributo alla diffusione del Covid-19 non è minimamente quantificabile; sul quasi ex presidente americano, invece sì. Or bene se uno vince l’allergia per i numeri della nostra Lilly Gruber e della allegra brigata che la contorna, a meno che non suonino favorevoli alle tesi sostenute, può trovare, con una rapida consultazione di Google, materia di un confronto assai semplice, proprio con riguardo all’entità della incidenza della pandemia. Bene, a tutt’oggi 16 novembre, l’Italia, con una popolazione di circa 60 milioni, ha avuto 1.178.529 positivi e 45.229 morti; gli Usa, con una popolazione di circa 330 milioni, ha contato 11.116.640 di infettati e 249.730 deceduti: cioè, in soldoni, qui da noi rispetto agli amici americani , con un quinto/un sesto di abitanti, si raggiunge solo un decimo di positivi, segno di un maggior contenimento, mentre si annovera un quinto dei morti, sintomo, questo di una peggiore risposta sanitaria, per quanto si dica e ridica a nostro favore come fosse un mantra.

Questa, però, è solo una premessa dell’improvvisazione e superficialità con cui la nostra tifoseria locale, che appunto sembra riprodurre le grida della curva della squadra del cuore, ha affrontato, ieri, la campagna elettorale statunitense, e, oggi, la polarizzazione radicale testimoniata dalle risultanze elettorali. Si può anche convenire sul carattere narcisistico e umorale di Trump, ma non liquidare una conta chiusasi quasi in pareggio come frutto di una manipolazione, che si basa, al tempo stesso, su un tiranno dotato di un potere ipnotico e su un popolo abbruttito nell’inseguire il mito di una America sempre più grande. Si perde così il senso di una malattia comune delle cosiddette democrazie occidentali, che certo la pandemia Covid-19 può avere coperto, riducendo tutto ad uno scontro fra salutisti e negazionisti, fra cui classificati non solo gli anti-mascherina ma anche i critici dei pieni poteri assunti dagli esecutivi. Se pur a costo di un giudizio abbastanza usuale e scontato, c’è una profonda crisi di valori, nel senso di quelli che hanno segnato l’emergere dello Stato nazione, su cui è gradualmente maturato il processo formativo dello sistema liberaldemocratico; i valori che davano identità non all’entità giuridica Stato, ma all’entità naturale nazione, fatta di lingua, storia, tradizione, credenza, bandiera e inno nazionale, dove si apparteneva per nascita nelle vecchia Europa e per lenta integrazione nella nuova America.

Certo, c’era una componente che in un certo senso si riteneva depositaria e interprete di questa identità, per qual sorta di discendenza genetica dai padri fondatori, per gli Usa quella bianca anglosassone, cui avrebbe dovuto omogeneizzarsi qualsiasi altra, cosa parzialmente riuscita con le risalenti ondate migratorie, ma difficile con la minoranza nera radicatavi da tempo, sempre più ribelle rispetto a quegli stessi padri fondatori e ai loro lasciti valoriali, difficilissima con i latinos provenienti a getto continuo dal centro America, via Messico.

Quello che costituisce il presente degli Usa, è il futuro dell’Europa, una somma di minoranze, governate da loro valori identitari coltivati nel privato, che non sono certo quelli della nazione dove sono approdate, pur nel rispetto di alcune regole formali di convivenza. Questo non senza un aggravio evidente, gli Usa non sono laici ma aconfessionali, la credenza in un Dio unico è un dato pubblico, reso possibile dalla assoluta prevalenza della fede nel Dio cristiano, se pur nelle sue molteplici varianti, per ciò stesso destinate ad una copresenza filtrata attraverso una lunga secolarizzazione. Non così per l’Europa, dove nonostante l’accento posto dall’attuale pontefice sul Dio unico, in verità non c’è nulla di comune fra il cristianesimo e l’islam, come riesce apparente da un semplice confronto fra i rispettivi libri canonici, il Vangelo e il Corano, per cui la crescente immigrazione musulmana, destinata ad ingrossarsi continuamente nel tempo, non può che creare una frattura valoriale assai più ampia di quella che caratterizza l’America di oggi.

La riaffermazione della conquistata laicità non è sufficiente, perché di per sé rappresenta solo una negazione, come risulta evidente nella proibizione di esibire simboli religiosi da parte di dipendenti pubblici, che quindi viene riempita da una riscoperta della propria nascita come nazione, fortemente influenzata dalla fede cristiana. Non per nulla la protettrice della Francia è Giovanna d’Arco, antesignana della Marianna rivoluzionaria. La sorella d’oltre Alpi recupera questa influenza cristiana, divenuta autonoma rispetto alla stessa fede, si sente profondamene ferita dall’incendio di Notre Dame, la cattedrale delle cattedrali di Francia, si ritrova nella sua storia secolare. La fede ha lasciato una traccia indelebile, dove si perpetuano i valori se pur secolarizzati, gli stessi su cui poggia consapevole o meno l’intera Europa uscita vincente dalla avanzata musulmana: Basterebbe chiedersi che cosa sarebbe oggi senza, a mille anni di distanza, la duplice vittoria di Carlo Martello a Poitier nel 732 e di Giovanni Sobieski a Vienna nel 1683, che fermarono tale avanzata che si stava spingendo fin nel cuore dell’Europa.

La vera questione non è data dalla capacità dell’Europa di recepire la immigrazione massiccia proveniente dall’Africa, dove a contare non è certo il colore della pelle ma la radicalità della fede professata, ma dalla capacità dei Paesi musulmani di uscire da un più o meno esplicito sistema teocratico, rimasto quasi immodificato in una sorta di lungo medioevo, che tende inevitabilmente a sfociare in un revanchismo a favore non solo di un Dio unico, ma adorabile secondo un solo dettame, quello predicato dal suo profeta Maometto. Niente da dire se fosse una questione di rito, ma è qualcosa di molto più profondo perché come la Bibbia anche il Corano, libro di un popolo di nomadi, introduce un rigido regolamento del vivere pubblico e privato attardato su quei tempi, ma confermato agli occhi dei credenti dal successo ottenuto in una espansione militare vincente in Asia, Africa, mezza Europa, una stagione che si illudono possa ritornare, dimenticandosi che oggi l’arma è data dalla tecnologia, non più dalla scimitarra, ma neppure dalla ricchezza petrolifera, destinata ad esaurirsi in futuro.

È problematico immaginare che i Paesi musulmani possano realizzare in pochi decenni un percorso che in Occidente ha richiesto secoli, con il cambio di passo decisivo dovuto alla rivoluzione industriale e alla svolta illuministica. Comunque, nel frattempo, è destinata a crescere l’immigrazione da tali Paesi, connotata da una forte identità religiosa, che via via, confortata dalla sua consistenza, alzerà la voce a difesa di una fede esclusiva e escludente, proiettata dal privato al pubblico. Previsioni, queste, equiparate, dalla nostra intellighenzia progressista, a profezie alla Cassandra, solo che Cassandra aveva ragione.

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