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Alla Lega conviene Draghi? Dipende da cosa viene a fare: se Monti o no, se a blindarci o liberarci

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L’antefatto – Il Conte 2 è perito in uno scontro che, su Atlantico Quotidiano, abbiamo descritto come fra Bettini e Renzi: fra chi dà priorità alla alleanza col 5 Stelle e chi agli ordini di Bruxelles. Abbiamo poi descritto come tale scontro avrebbe potuto risolversi con una nuova maggioranza europeista (“Ursula”) ed un nuovo primo ministro (Orlando, …) pronta a sostenere le riform€ che Bruxelles intende imporci … a condizione che Pd e 5S avessero scaricato i ministri meno lesti ad eseguire (Bonafede) e si fossero sottoposti al Mes.

Queste due condizioni Pd e 5S hanno rifiutato: troppo centrale Bonafede per i 5S, troppo succube dei 5S il Pd … con Zingaretti e Bettini che andavano ripetendo come l’obiettivo di Renzi fosse politicistico. La loro sicumera è tracimata il giorno prima del loro fallimento, con il cosiddetto “lodo Orlando”: un ennesimo rinvio sulla giustizia, sulla scia del comandamento di Vito Crimi, “evitare le materie divisive”. Codesti signori tutti non avevano capito che Renzi era il portavoce di Bruxelles e non uno scalzacane.

Ciò accaduto, Mattarella ha incaricato Draghi.

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Tata Draghi per Pd e 5S – Il detto presidenziale, “governo che non debba identificarsi con alcuna formula politica”, è stato inteso dai più come l’eterno ritorno del governo tecnico di unione nazionale. Ma Pd e 5S la vedono diversamente: per loro Mattarella avrebbe assegnato a Draghi il ruolo di tata, quella che cambia il pannolino a Gualtieri e insegna i congiuntivi a Di Maio. In coerenza con l’impostazione della intera presidenza Mattarella, caratterizzata dal veto al ministro Savona e dal concepimento della “alleanza strategica” Pd-5S: ultima resurrezione di una maggioranza eurista nel Parlamento italiano, cancellata dal popolo sovrano nel 2018 e resuscitata dal Quirinale nel 2019.

Certo, tale resurrezione è una prestidigitazione: nei 18 mesi del Conte 2 non è pervenuta alcuna delle riform€ pretese da Bruxelles e i conti dello Stato sono precipitati all’inferno. Eppure, persino chi tutto ciò ha mostrato, Renzi, non rinnega affatto l’alleanza coi 5S, solo intende allargarla al centro con Forza Italia: significativamente lo stesso obiettivo tentato da Conte con le anime perse alla Tabacci. Tutti loro condividono lo stesso problema: se i 5S votassero contro Draghi, la prestidigitazione sparirebbe e sarebbe un fatto politico maggiore.

Come ognun sa, i 5S stanno nelle peste, al punto di aver spinto Mario Monti ad un affannato appello ad “assecondare la chiamata di Mattarella”. Conte ha ribadito l’alleanza, la ha ribattezzata “per lo sviluppo sostenibile” e si è proposto come suo garante dentro il 5S; perciò, egli è stato pubblicamente lodato da Zingaretti, Orlando, Letta, Speranza. Conte ha poi auspicato “un governo politico, che abbia quella sufficiente coesione per poter operare scelte eminentemente politiche, perché le urgenze del Paese non possono essere affidate a squadre di tecnici”. Messaggio subito colto da Franceschini, il quale invita i 5S a non dare alla destra “le chiavi del governo” per dire “le poltrone del governo”. Che tale aspetto sia per loro assai importante, i 5S lo hanno dimostrato preferendo Bonafede al Conte 3, solo pochi giorni orsono.

Sabato, Grillo e Crimi hanno ribadito la posizione già espressa da Conte, questa volta con la formula: “sarà importante il perimetro della maggioranza – serve una maggioranza politica che possa sostenere un governo solido”. Formula munita di un corredo esplicativo di temi da battaglia: giustizia, politica energetica-ambiente-sviluppo economico ad un super-ministero assegnato a Conte, cancellazione di 20 miliardi di contributi carburante a trasportatori ed agricoltori ed altro ancora. Manifestamente, il 5S combatte col Pd.

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Ora, chiediamoci: se le richieste di Pd-5S venissero accolte ed il governo Draghi fosse la copia del Conte 2 (con trattori e camionisti a bloccare le strade, Bonafede della prescrizione, Gualtieri dei 100 miliardi di buco, Speranza dei virologi, Azzolina dei banchi a rotelle): Draghi avrebbe qualche chance di fare una fine diversa dal predecessore? Ma neanche al circo. Sarebbe il governo di tata Draghi. Come auspicato da Fassina quando descrive un governo tecnico di scopo, che si limiti alla redazione del compitino detto Recovery Plan, preparazione presidenza G20, approvazione del Def (oltre a ristori e vaccinazione, vabbè): compiti minimi pure per il governo del Bocambo, ma che Pd-5S sono manifestamente incapaci di assolvere.

Poniamoci una seconda domanda: l’Europa che stava dietro a Renzi, può essere soddisfatta che a tata Draghi sia affidata unicamente la redazione-preparazione-approvazione? Che le riform€, ad esempio, tata Draghi le elenchi soltanto, per poi lasciarne l’implementazione a Di Maio Duca di Whirlpool? No.

Poniamoci una terza domanda: l’uomo Draghi può accettare una simile diminutio? Anche no, diremmo. Più probabile egli abbia altri programmi: magari ha una maggiore considerazione di sé di quella che gli riservano a Palazzo, magari ha dei progetti più ambiziosi, magari ha accettato l’incarico con l’intenzione di usarlo come i greci usarono il cavallo di legno.

Se così fosse, la sua prima preoccupazione sarebbe allentare la tenaglia Pd-5S. All’uopo, nulla di meglio che usare la Lega, alla quale Renzi aveva chiesto la mera disponibilità ad un appoggio esterno e che, invece, ha fatto sapere che “l’astensione è esclusa, o saremo a favore o voteremo contro”. La presenza della Lega ridurrebbe drasticamente i posti disponibili pei ministri 5S, riproducendo l’effetto Bonafede che abbiamo visto e mettendo quel partito ulteriormente nelle peste. Non solo, essa produrrebbe repulsione in una parte importante del Pd: la quale ha già mandato avanti la propria sottomarca (Leu) a dire che “l’alleanza Pd-M5S-Leu è incompatibile con la presenza della Lega” (ciò che avrebbe il non indifferente vantaggio di liberarci del ministro Speranza). Quanto al Pd vero e proprio, esso non può votare apertamente contro Draghi, per non consegnare Draghi della destra in corrispondenza di elezioni a quel punto inevitabili, ma nemmeno può abbandonare un 5S diviso al suo destino: dunque ridurrebbe la caratura politica della propria delegazione ministeriale sino ai limiti dell’appoggio esterno. Sicché, il governo Draghi verrebbe lo stesso formato, ma libero dalla tenaglia.

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Dunque, a Draghi conviene l’appoggio della Lega. Ma alla Lega cosa conviene?

Beh, dipende da quel che Draghi ha in mente di fare. Lasciamo perdere temi amministrativi tipo sburocratizzazione e fine del lockdown: indispensabili ma pure il minimo sindacale. Della ciccia macroeconomica, cosa sappiamo?

  1. Draghi non è più il presidente di Bce: i soldi non può più stamparli, come ci ricorda l’ottimo Brousseau.
  2. Draghi è un federalista europeo, senz’altro; ma conosce i tedeschi e sa che non sono federalisti: 10 anni fa, pensava che si sarebbero convinti a divenirlo, oggi non lo pensa più.
  3. Draghi non vuole chiamare il Mes, lo ha spiegato a Rimini; infatti, una settimana fa Renzi ci ha fatto cadere il governo Conte epperò, all’apparire di Draghi, Valerio De Molli e Il Foglio ci hanno informati che il Mes non serve più.
  4. Le stesse condizioni del Mes (con corollario di riform€ deflattive) valgono per il Recovery Fund, peraltro sempre arenato nelle capitali del Nord Europa; la priorità di Draghi è togliere a queste ultime l’alibi dell’immobilismo di Conte, riscrivendo il compitino di nostra pertinenza e facendoselo approvare da Bruxelles: la responsabilità del fallimento non sarà italiana.
  5. Draghi ha costretto Monti a fare Monti, cioè a “distruggere la domanda aggregata” per diminuire le importazioni e migliorare il saldo del commercio con l’estero, senz’altro; ma, lui stesso, non viene a fare Monti, lo ha spiegato sempre a Rimini.
  6. Draghi, al Tesoro negli anni ’90, ha venduto l’integralità di Austostrade e Telecom e tante altre partecipate pubbliche perché serviva attrarre capitali esteri; ma oggi non ne fa cenno.
  7. Durante le consultazioni ha detto di voler “convertire una atmosfera depressiva in vitalità”: espressione che, sulla bocca di un banchiere, non può che significare: attrarre capitali.

Insomma, Draghi: (1) non può più stampare soldi, (2) non attende i soldi di un fantasioso bilancio federale, (3) non vuole i soldi del Mes, (4) non lascia trasparire particolare ottimismo circa i soldi del Recovery Fund, (5) non vuole cavare altri soldi dal saldo del commercio con l’estero, (6) non pare cercare i soldi dalle privatizzazioni, eppure lo stesso (7) vuole attrarre capitali. Ma quali capitali?

La risposta lui non la ha data, ma a noi pare essa abbia a che fare con il grande segreto della crisi de Leuro: la fuga dei capitali italiani in Germania. Nel 2008, dopo Lehman Brothers, le banche tedesche erano praticamente decotte e ben difficilmente avrebbero potuto trattenere i capitali privati, non fosse intervenuta la crisi dell’euro che, mettendo contemporaneamente in crisi i titoli di Stato e dunque le banche di mezz’Europa, regalò alla Germania ed alle sue banche lo status di safe haven. Questa la vera ragione per la quale l’Italia non è tornata a crescere, dopo il 2011: non la corruzione (che c’era anche prima), la produttività (che non può migliorare in depressione), e le altre balle da moralisti e aziendalisti. Nel 2011-2015, quando Draghi preparò e fece il QE, dovette scambiarlo con la introduzione del bail-in per le banche, pretesa da Berlino al fine di far saltare qualche banca italiana e così interrompere il meccanismo di trasmissione dal Btp (che usciva dalla crisi) ai crediti al settore privato (che non sono mai più aumentati): improvvisamente le banche italiane parvero praticamente decotte e la fuga dei capitali riprese di gran lena. Oggi, rispetto a quel 2008, le cose sono un poco cambiate: le banche tedesche continuano ad essere praticamente decotte, ma la Germania affonda nei capitali … al punto da rischiare seriamente l’inflazione: la fuga dei capitali italiani, da vantaggio tedesco, si è trasformata in un potenziale svantaggio.

Nel frattempo, con la cura Monti ed a furia di mancata crescita dei consumi interni, l’Italia ha costruito un avanzo commerciale mastodontico ed un debito estero negativo: non abbiamo debito ma credito verso il resto del mondo, siamo un Paese creditore e lo siamo ogni anno di più. Che un Paese creditore abbia mendicato soldi come hanno fatto Conte e Gualtieri, è la cifra della loro bancarotta politica ed intellettuale. Draghi questo lo sa, come sa che, per tornare a crescere, l’Italia deve invertire la fuga dei capitali: farli rientrare.

Tutto ciò converrebbe alla Lega? Sì, parecchio. Se Draghi attendesse i soldi di un fantasmagorico bilancio federale, del Mes, del Recovery Fund, oppure ne volesse cavarne altri dal saldo del commercio con l’estero, egli sarebbe un Monti qualunque: avrebbe fallito in partenza, sarebbe come un gatto in autostrada e l’unica risposta possibile sarebbe un no secco. Ma così non è, almeno non pare.

A Giorgetti che insiste sulla opportunità, per la Lega, di conquistare “la garanzia di poter governare dopo una vittoria elettorale” ripetiamo, con Federico Punzi, che votare Draghi anche se fosse Monti sarebbe la garanzia di non avere mai più una vittoria elettorale. A Gramellini, secondo il quale “dire sì a Mario Draghi equivale a compiere una solenne e pubblica abiura”, ad Orlando che dubita della sincerità dell’abiura, ad Enrico Letta che la saluta, ad Orsina che invita la Lega a “responsabilizzarsi come il 5S”, abbiamo sin qui mostrato che si può immaginare di aiutare Draghi per gli stessi motivi per i quali non si poteva aiutare Monti.

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Ciò che Draghi pare avere in mente, va tutto bene? No. Anzitutto, i capitali italiani all’estero, immaginiamo egli ritenga di poter farli rientrare con la sola presenza sua propria, unita alla continuazione degli acquisti di Bce: la monetizzazione, vulgo QE eterno. Ma sarebbe non considerare la possibilità che i tedeschi siano di altro parere: in effetti, solo la segregazione dell’Italia dentro il sistema dei pagamenti di Bce, detto Target2, garantirebbe l’esito desiderato.

In secondo luogo, la Francia è attaccata quanto e più di noi alla canna di Bce; al punto da desiderare una nuova cura Monti per l’Italia, col fine inespresso di gettarla in deflazione, dunque ridurre l’inflazione media dell’Eurozona, dunque consentire a Bce di proseguire ad libitum la monetizzazione in corso del debito francese. Lo aveva fatto sapere due settimane fa Alain Minc, lo ha ripetuto ieri Trichet, che citiamo: “le riforme strutturali sono imprescindibili, oso dire soprattutto in Italia … dovremo rassicurare molto rapidamente investitori e risparmiatori. Devono sapere che possono avere fiducia”. Ma Draghi non viene a fare Monti, lo abbiamo visto, quindi deve proporre a Parigi una alternativa, che non può essere la mera segregazione, non avendo la Francia corretto i propri saldi esterni: in effetti, solo la separazione vera e propria di Bce in una Bce tedesca ed una Bce francese, garantirebbe l’esito desiderato. Alla bisogna, se c’è qualcuno che può convincere i francesi, questo è proprio Draghi.

Insomma, la Lega dovrebbe interrogare Draghi sul suo Piano B: cosa farà, il giorno in cui saranno cadute le frottole del Recovery Fund e saranno finiti gli acquisti di Bce? Ragionando per estremi, se egli rispondesse, “faccio come Monti”, sarebbe l’annuncio di un prossimo reciproco addio; se rispondesse, “Bce Francese se Parigi ci sta, segregazione italiana se Parigi non ci sta”, sarebbe l’inizio di una bella amicizia. Questo secondo estremo è, da mesi, il nostro orizzonte, oggi divenuto pure quello del quotidiano conservatore britannico The Telegraph, che citiamo: “l’uomo che ha impiegato la propria vita pubblica cercando di far entrare l’Italia nell’euro e di tenercela potrebbe, per scherzo del destino, divenire l’uomo che deve sorvegliarne l’uscita risanatrice. Egli sarebbe perfettamente adatto al compito”.

Non si tratterebbe della fine del movimento liberale in Italia, anzi: esso si libererebbe del proprio più ingombrante alleato, il vincolo esterno che ha portato solo depressione, attraverso Draghi intestandosi un successo che gli consentirebbe di dare inizio ad una nuova egemonia politica, liberale senza l’Euro. Né si tratterebbe della fine dell’europeismo italiano, anzi: l’Ue è cosa diversa dall’Euro. L’Unione senza l’Euro è possibile.

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