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Usa-Russia al vertice della tensione: Biden telefona a Putin e si affida al “dittatore” Erdogan

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Giornata caldissima, e interessante, quella di ieri sia sul fronte russo che sul fronte iraniano. I ribaltamenti di politica estera dell’amministrazione Biden rispetto a Trump stanno producendo i loro primi effetti (vedremo se stabilizzanti o destabilizzanti) in diverse aree. Per quanto riguarda il primo, la tensione stava crescendo da qualche settimana – più o meno dalla infelice uscita del presidente Biden che in una intervista aveva con leggerezza definito Putin “un assassino” – accumulandosi sulla irrisolta crisi ucraina.

Reciproche le accuse di dispiegamenti di truppe e provocazioni: da una parte migliaia di soldati russi concentrati nei pressi del Donbass, la regione contesa dell’Ucraina, dall’altra navi da guerra Usa in rotta verso il Mar Nero e movimenti di assetti militari Nato; il portavoce del Cremlino che parla della possibilità di un conflitto su “vasta scala”; Putin che accusa Kiev di “provocazioni pericolose” e avverte Ankara di non intromettersi; i ministri degli esteri del G7 che esortano Mosca a “cessare le sue provocazioni e ridurre le tensioni in linea con i suoi obblighi internazionali”.

Ieri il botta e risposta Nato-Mosca. “Il considerevole concentramento militare della Russia” ai confini con l’Ucraina è “ingiustificato, inspiegabile e profondamente preoccupante”, ha denunciato il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, dichiarando che “la Russia deve porvi fine, fermare le sue provocazioni e ridurre immediatamente l’escalation”.

Il ministro della difesa russo Sergey Shoigu ha accusato Usa e Nato di formare raggruppamenti navali e terrestri vicino ai confini con la Russia (“40.000 soldati e 15.000 mezzi bellici, compresi aerei strategici”), avvertendo che Mosca sta adottando delle misure per far fronte alle “minacce” dell’Alleanza e “nell’arco di tre settimane” ha schierato “due armate e tre divisioni di truppe aviotrasportate” presso i suoi confini occidentali e “nelle aree delle esercitazioni”.

Nel frattempo, il segretario di Stato Usa Anthony Blinken è tornato di nuovo a Bruxelles, dove ieri ha incontrato il ministro degli esteri ucraino Kuleba, al quale ha ribadito “il pieno sostegno” di Washington di fronte alla “continua aggressività” di Mosca, mentre oggi prenderà parte, insieme al segretario alla difesa Austin, al vertice dei ministri degli esteri e della difesa dell’Alleanza. Temi al centro della discussione, ovviamente la crisi ucraina, con la rinnovata aggressività russa, ma anche Afghanistan e Iran.

Nel pomeriggio di ieri, la telefonata Biden-Putin pare se non altro aver allentato la tensione. Troppo presto per parlare di distensione, ma i due presidenti sono tornati a parlarsi dopo settimane di gelo.

Due note distinte su quello che si sono detti. Il presidente americano, fa sapere la Casa Bianca, ha sottolineato “l’incrollabile impegno degli Stati Uniti per la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina”, espresso “preoccupazione per l’improvviso rafforzamento militare russo nella Crimea occupata e ai confini con l’Ucraina” e chiesto a Mosca di “ridurre le tensioni”.

Più generico il resoconto della telefonata da parte russa: da entrambe le parti “è stata espressa la volontà di proseguire il dialogo nei settori più importanti per la sicurezza mondiale: il che risponderebbe agli interessi non solo della Russia e degli Usa, ma di tutta la comunità internazionale”. “Inoltre – riferisce il Cremlino – Biden ha espresso interesse a normalizzare lo stato dei rapporti bilaterali, a costruire una relazione stabile e prevedibile su questioni rilevanti come la stabilità strategica e il controllo degli armamenti, il programma nucleare iraniano, la situazione in Afghanistan e il cambiamento climatico globale”.

Ma la novità, riferita da Washington, è che Biden ha proposto a Putin “un incontro in un Paese terzo nei prossimi mesi”. E nella serata di ieri Putin ha parlato con il presidente della Finlandia: l’incontro con Biden potrebbe tenersi ad Helsinki, come avvenne con Trump nel 2018.

Non crediamo sia un caso che in concomitanza con la telefonata Biden-Putin siano giunte due notizie proprio su uno dei dossier trattati nel loro colloquio: l’Afghanistan.

Il presidente Biden dovrebbe annunciare a breve, forse oggi, secondo quanto riporta il Washington Post, il ritiro delle truppe Usa dall’Afghanistan entro il prossimo 11 settembre, a vent’anni esatti dall’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono.

Inoltre, il Ministero degli esteri turco ha reso noto che l’annunciata conferenza internazionale sull’Afghanistan per arrivare ad un accordo di pace tra il governo di Kabul e i Talebani si terrà a Istanbul dal 24 aprile al 4 maggio. La conferenza sara organizzata dalla Turchia insieme al Qatar e, sotto l’egida dell’Onu, avrà come obiettivo quello di “accelerare e coadiuvare i negoziati intra-afghani di Doha per il raggiungimento di una soluzione politica giusta e duratura”.

Difficile che le due notizie non siano collegate tra di loro e crediamo che su questo versante la telefonata Biden-Putin abbia smosso qualcosa. L’annuncio del ritiro americano dall’Afghanistan non può non essere apprezzato a Mosca, che potrebbe ricambiare con la de-escalation ai confini con l’Ucraina. E difficilmente la conferenza sull’Afghanistan potrebbe avere successo senza l’impegno sia russo che americano.

Vale la pena qui sottolineare la centralità turca in entrambi i dossier.

Se la chiusura dei voli decisa da Mosca da e per la Turchia suona come una punizione per il pieno sostegno offerto da Ankara a Kiev, Erdogan sembra tutt’altro che isolato a occidente. A dispetto delle analisi secondo cui nel definirlo un “dittatore” il premier italiano Draghi avrebbe voluto allinearsi ad un presunto nuovo corso di Washington, ostile nei confronti del presidente turco, pare invece che l’amministrazione Biden abbia affidato al “dittatore” Erdogan il compito di favorire una soluzione politica definitiva in Afghanistan – dalla quale dipendono le chance di mantenere l’impegno a ritirare le truppe Usa – e abbia tutta l’intenzione di “recuperare” la storica funzione anti-russa della Turchia. A cominciare dal pieno sostegno all’Ucraina, come dimostrano l’amichevole incontro del 10 aprile ad Ankara tra il presidente turco e quello ucraino Zelensky (concluso con una inequivocabile dichiarazione congiunta di 20 punti) e la cooperazione militare tra i due Paesi.

Segno che per quanto vi siano diversità di vedute e di valori, per quanto Erdogan sia poco amato per il suo autoritarismo e la sua spregiudicatezza, a Washington non sottovalutano il ruolo che può giocare per gli interessi americani e occidentali quello che resta pur sempre un alleato Nato.

Alle prese con una grave crisi interna, economica e politica, Erdogan non ha ancora “scartato” il sistema di difesa S-400 acquistato dai russi e ha astutamente deciso di giocare nel campo dell’Occidente in due crisi di primario interesse per gli Stati Uniti, quella ucraina e quella afghana.

Inoltre, il progetto Kanal Istanbul, fortemente voluto dal presidente turco, e criticato perché metterebbe in discussione la Convenzione di Montreux del 1936, che regola i passaggi negli stretti dei Dardanelli e del Bosforo e nel Mar di Marmara, farebbe invece molto comodo agli Stati Uniti, le cui navi potrebbero posizionarsi più a lungo di quanto oggi consentito non essendo Paese rivierasco.

Anche se i nostri governi faticano a comprenderlo e ad agire di conseguenza, la Turchia è chiaramente un nostro rivale, la politica neo-ottomana di Erdogan è in netto contrasto con gli interessi italiani in Libia, nel Mediterraneo e nei Balcani, ma è purtroppo una sfida che dovremo affrontare in gran parte da soli. Molto difficile che a Washington siano disposti ad introdurre un nuovo motivo di dissidio con Ankara, così fondamentale nel contenere Russia e Cina e nel chiudere la partita afghana, per farci riconsegnare la Tripolitania. Gli americani non incrineranno i loro rapporti con Erdogan, già difficili, per salvare i nostri interessi in Libia e non li convincerà del contrario definirlo un “dittatore”. Al massimo, potranno darci una mano a difendere qualche posizione non ancora perduta. L’opportunità di un mandato Usa in Libia l’abbiamo sprecata anni fa.

Interessanti sviluppi ieri anche sul dossier iraniano. Se l’amministrazione Trump era riuscita ad esercitare la “massima pressione” su Teheran, mettendo alle corde sia economicamente, sia dal punto di vista diplomatico che militare il regime iraniano, fino all’uccisione di Soleimani, ora sembra che Teheran stia riuscendo a mettere sotto pressione l’amministrazione Biden. D’altra parte, non trova solo la Russia al suo fianco nel chiedere che Washington torni nell’accordo sul nucleare del 2015 (Jcpoa), ma anche gli Stati europei firmatari – Francia, Germania e Regno Unito.

Dopo l’attacco al sito nucleare di Natanz – un’operazione di sabotaggio di possibile matrice israeliana – gli iraniani hanno annunciato l’avvio, proprio in quell’impianto, dell’arricchimento dell’uranio al 60 per cento, in violazione dell’accordo. Probabilmente un bluff, ma una risposta allo smacco subito e una forma di pressione sui colloqui di Vienna per il ritorno degli Stati Uniti nel Jcpoa. L’annuncio è arrivato proprio dal capo negoziatore iraniano, il viceministro degli esteri Abbas Araghchi. Sabato scorso inoltre Teheran aveva annunciato l’avvio di mille nuove centrifughe IR-6 e la sperimentazione di centrifughe IR-9 nell’impianto di Natanz.

Il presidente Usa Biden “deve scegliere tra l’accordo nucleare concluso dall’ex presidente Obama nel 2015 o il fallimentare terrorismo economico dell’ex presidente Trump”, ha rilanciato il ministro degli esteri iraniano Zarif. L’unico modo per evitare l’escalation è la rimozione di tutte le sanzioni americane, avvertono Teheran e Mosca, quindi il ritorno incondizionato degli Usa nell’accordo.

Gli Stati Uniti restano impegnati nei negoziati sul nucleare iraniano nonostante la dichiarazione “provocatoria” di Teheran, ha spiegato ai giornalisti la portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki: “Siamo certamente preoccupati per questi annunci provocatori. Ma crediamo che la via diplomatica sia l’unica strada da seguire e che avere una discussione, anche indiretta, sia il modo migliore per arrivare a una risoluzione”.

Sembra ormai una questione di quando e di come, il ritorno degli Stati Uniti nell’accordo, non di se. Questo gli iraniani l’hanno capito e se ne stanno avvantaggiando. A conferma del ribaltamento della politica mediorientale del suo predecessore, il presidente Biden sta tornando sui passi di Obama: predilige l’intesa con l’Iran, torna a rivolgersi all’islam politico sunnita di Turchia e Qatar come interlocutore affidabile per risolvere le questioni mediorientali, allontanandosi da Israele e Arabia Saudita, che pure hanno dato vita ad uno storico processo di pace con gli Accordi di Abramo.

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