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Ungheria e Polonia cantano vittoria: il veto paga, la Merkel galleggia, il Recovery Fund si allontana

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Se la bozza di conclusioni verrà confermata, per Varsavia e Budapest vittoria piena: meccanismo di condizionalità sullo stato di diritto sospeso e sabotato da una serie di paletti. La cancelliera Merkel si conferma leader… di galleggiamento. Il Recovery Fund – i 200 miliardi che il governo Conte e la stampa eurofila ci stanno vendendo per la seconda volta – si allontana: secondo semestre 2021 (se va bene). E si conferma tutt’altro che un programma anti-crisi: la pandemia solo un pretesto per un’operazione dirigistica ideologicamente motivata

In attesa di poter leggere nero su bianco e valutare le conclusioni del Consiglio europeo del 10 e 11 dicembre, tre punti sembrano emergere abbastanza chiaramente.

Primo punto – Saper negoziare duramente, dire dei no e non solo dei signorsì, ricorrendo se necessario al diritto di veto, paga. Quante volte ci siamo sentiti ripetere dagli eurolirici – presidenti del Consiglio, professoroni o commentatori – che porre veti in sede europea è controproducente? Ebbene, la lezione che arriva in queste ore dalla strategia negoziale di Polonia e Ungheria è che la linea dura funziona. E si tratta di due Paesi non fondatori, non dell’Eurozona, con un peso specifico che dovrebbe essere inferiore a quello dell’Italia, pur gravata dall’enorme debito pubblico che ne riduce anche i margini di manovra politica.

Bloccando sia il bilancio 2021-27 che il Next Generation Eu (chiamato così perché probabilmente lo vedranno le prossime generazioni…), hanno costretto la presidente di turno dell’Ue, Angela Merkel, ad una estenuante trattativa dalla quale hanno almeno ottenuto di inserire una sorta di pregiudiziale di legittimità al meccanismo di condizionalità sullo stato di diritto, tagliola che Commissione europea e Parlamento europeo avrebbero voluto far scattare da subito proprio contro Varsavia e Budapest. Il regolamento, ricordiamo, permetterebbe alla Commissione di negare l’accesso ai fondi europei ai Paesi che violassero il “principio dello stato di diritto”.

Come Musso ha magistralmente spiegato qualche giorno fa su Atlantico Quotidiano, infatti, assistiamo al paradosso di una condizionalità per lo stato di diritto che viola essa stessa lo stato di diritto, dal momento che stabilisce una sanzione, e una procedura sanzionatoria, da applicare agli Stati membri non solo non prevista nei Trattati ma probabilmente in contrasto con essi. Tra l’altro, il regolamento è pervaso da una tale ambiguità, in primis sul concetto stesso di stato di diritto, da lasciare campo libero a valutazioni ampiamente discrezionali. Insomma, il rischio è che la questione stato di diritto venga strumentalizzata per processare e condannare governi considerati ostili al progetto Ue, sovranisti e populisti. Cosa che ci pare stia già accadendo. Hanno ragione polacchi ed ungheresi – concludeva Musso – ad opporsi ad un meccanismo punitivo e discrezionale, costruito su una interpretazione dei Trattati infondata, in mano a commissari che coltivano apertamente la propria partigianeria.

Secondo il compromesso raggiunto a Bruxelles, il controverso regolamento viene di fatto sospeso. La Commissione infatti si impegna a non avviare azioni finché non avrà elaborato, in “stretta consultazione” con gli Stati membri, delle linee guida per la sua applicazione. Ma se contro il regolamento verrà presentato un ricorso alla Corte di Giustizia Europea – ricorso che Ungheria e Polonia hanno tutta l’intenzione di presentare – allora la Commissione dovrà aspettare il pronunciamento della Corte prima di darsi delle linee guida. Quindi, nell’attesa, non potrà applicare il regolamento. Polacchi e ungheresi ottengono inoltre di inserire nella bozza delle conclusioni dei paletti, di fatto delle linee guida, che rovesciano il meccanismo e lo fanno rientrare (ma ci torneremo nel dettaglio nei prossimi giorni) nell’alveo dei Trattati, in questo modo disinnescando i missili che si volevano puntare contro di loro.

Secondo punto – Molto probabilmente stamattina leggerete della “vittoria della Merkel”, il solito titolo-rifugio della nostra stampa eurolirica quando le cose non sono andate esattamente come previsto. “Chiude in bellezza” il suo ultimo semestre di presidenza Ue, titolava ieri l’Huffington Post. Certo, il compromesso permette di superare lo stallo e sbloccare il bilancio. Ma è un compromesso nettamente al ribasso per chi si aspettava di vedere Orban e Morawiecki alla sbarra.

Angela Merkel è una leader, sì, ma di galleggiamento. Nessuno sa galleggiare come lei. L’Ue, nei quindici anni in cui l’ha di fatto guidata, è riuscita a malapena a restare a galla, non di rado imbarcando acqua. Di sicuro la lascia più disunita e instabile di come l’ha trovata.

Terzo punto – Del mini-bilancio aggiuntivo, il Recovery Fund, v’è una sola certezza: formalmente è sbloccato e potrà proseguire il suo iter – la ratifica dei Parlamenti degli Stati membri – ma bisognerà aspettare il secondo semestre 2021 per vedere i primi miliardi (se tutto va bene…), mentre il nostro governo e la nostra stampa eurofila stanno vendendo per la seconda volta all’opinione pubblica una pioggia di miliardi. Che per ora non c’è (e probabilmente non ci sarà al netto dei nostri contributi).

Di certo, non prima delle elezioni politiche olandesi che si terranno a marzo. Il primo ministro Mark Rutte, vigoroso fautore della condizionalità sullo stato di diritto e, invece, ostinato avversario del Recovery Fund, è il grande sconfitto di questo Consiglio. Rutte aveva chiesto almeno la retroattività del meccanismo: se la Corte di Giustizia Europea confermerà il regolamento, i fondi erogati agli Stati che violano lo stato di diritto dovranno essere restituiti. Ma non ha ottenuto nemmeno questo. Però ha ancora una possibilità di pareggio: intanto, porta a casa i rebate, e se il regolamento sullo stato diritto dovesse davvero risultare sabotato, come sembra, avrebbe il pretesto per affossare il Recovery Fund, che non ha mai voluto. Poco ma sicuro, dunque, non bisogna aspettarsi una ratifica del Parlamento dell’Aja prima del voto.

Se non altro per ragioni temporali (secondo semestre 2021), ne esce male anche la narrazione, o piuttosto la favoletta del Recovery Fund come bazooka anti-crisi da Covid-19. Troppo poco, troppo tardi. Soprattutto nei Paesi, come il nostro, dove i governi non sono stati in grado di indennizzare le attività economiche più penalizzate dai lockdown, i danni saranno irreparabili. Non solo perché dispiegherà i suoi effetti probabilmente nel 2022-23, il Next Generation Eu non è uno strumento anti-crisi Covid anche per la sua logica di programma: non si tratta di indennizzi alle attività colpite, di interventi di sospensione e taglio orizzontale delle tasse, quindi neutri. Si tratta di una gigantesca operazione dirigistica, ideologicamente motivata, che prende a pretesto la pandemia per tentare una riconversione economica dall’alto e accrescere il potere di intermediazione della spesa pubblica da parte dell’Unione europea. Uno spreco, nel migliore dei casi. Nel peggiore, si arricchiranno gli attori economici più “ammanicati” con la politica, si impoveriranno tutti gli altri.

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