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Un terzo partito al governo e Salvini al bivio: all-in o cottura a fuoco lento

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È evidente a tutti come le elezioni europee ci abbiano consegnato un quadro politico fortemente mutato. Dalle urne sono usciti completamente ribaltati i rapporti di forza tra i partiti di maggioranza, Movimento 5 Stelle e Lega – e poco importa per la tenuta del governo che in Parlamento restino i numeri usciti dalle elezioni del 4 marzo. Un esito tutto sommato atteso – anche se gli ultimi sondaggi prima del silenzio e le narrazioni mainstream avevano tentato di sviare gli elettori accreditando una inesistente rimonta di Di Maio ai danni di Salvini.

Si è aperta quindi una nuova fase politica, segnata però non solo e non tanto da una nuova dialettica tra le due forze di governo, in parte prevedibile, ma dalla conferenza stampa del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che rivolgendosi direttamente agli italiani e scavalcando le Camere, ha voluto richiamare all’ordine i due vicepremier, addirittura minacciando di rimettere il proprio mandato nelle mani del capo dello Stato. Un quasi ultimatum che per il momento sembra aver sortito qualche effetto, anche perché ci sono due decreti in sospeso da convertire, ma che nel medio termine potrebbe destabilizzare i delicati equilibri dell’Esecutivo e quindi accelerarne la crisi.

In ogni caso, stiamo assistendo a un inedito protagonismo da parte di questo premier, proseguito con le lunghe interviste dei giorni scorsi (Corriere, Repubblica, Ansa), che Salvini e Di Maio sbaglierebbero a sottovalutare e mal interpretare. Rimarcando la sua indipendenza e terzietà rispetto ad entrambi i contraenti, il suo essere guidato dall’interesse generale, in contrasto con gli interessi particolari di cui sarebbero portatori i due vicepremier, Conte è sembrato scendere dal carro dei perdenti – quel Movimento 5 Stelle di cui se non militante era comunque espressione “competente”, ragione per la quale era arrivato a Palazzo Chigi – e salire sul Colle più alto, dove si danno e si daranno le carte. L’accusa di essere diventato “mattarelliano” non lo sfiora, “essere in sintonia col capo dello Stato è un onore”, si schermisce Conte.

Semplicemente, le mosse del premier indicano che la partita della legislatura non si gioca più tra Lega e 5Stelle. Almeno, non solo. D’ora in avanti, la vera partita è Quirinale-Salvini. Arginare, contenere, nella speranza di logorarne il consenso, è l’obiettivo nemmeno troppo nascosto di chi da dentro e da fuori i palazzi della politica sta erigendo un vero e proprio cordone sanitario attorno al leader leghista.

Potrà sembrare paradossale, ma Salvini non si trova affatto in una posizione facile. Certo, meglio uscire dalle urne europee trionfante con un 34 per cento che con un 17. Nei confronti dell’alleato di governo la Lega è senz’altro in una posizione win-win. Ma in termini di strategia politica di medio-lungo periodo, la sua somiglia più a una posizione lose-lose, o quanto meno di molto difficile lettura, e proverò a spiegare perché.

Partendo dalle parole del premier. “Attenzione a sfidare la Commissione europea sulla procedura di infrazione per debito eccessivo. Se viene aperta davvero, farà male all’Italia”. “Devo poter condurre insieme al ministro dell’economia Tria il negoziato, senza distonie e cacofonie”. Anche sul commissario europeo in quota del governo italiano. “Dobbiamo sapere che ci troveremo di fronte un Parlamento europeo molto diffidente. Lì passa chi ha la maggioranza più uno dei voti, e noi non saremo in maggioranza. Le forze politiche interne non hanno capitalizzato i voti, a Strasburgo. Si prefigura un loro ruolo non decisivo anche per la Lega che pure ha riportato una grande vittoria in Italia”.

“Non posso e non voglio assumermi la responsabilità di esporre il sistema-Paese a rischi inutili”. Il messaggio di Conte è inequivocabile: il governo che guida non andrà allo scontro con l’Ue, piuttosto si piegherà come ha fatto Tsipras. E tutta l’agenda economica del governo sarà subordinata all’obiettivo di accordarsi con Bruxelles, al rispetto dei suoi vincoli. Altro che “prima gli italiani”. Addio flat tax. Un campanello d’allarme dovrebbe aver risuonato nella testa di Salvini: al contrario di Di Maio, che deve solo scongiurare un ritorno alle urne, non può permettersi di piegarsi.

Insomma, c’è un terzo partito al governo, quello del Colle, e non ha firmato alcun contratto con gli altri due. Anzi, lo ha già stracciato. I due vicepremier potrebbero scoprire presto che stanno dando i loro voti a un Governo Monti 2.0. E la sfida a Salvini è già lanciata: o è così, o provi a chiedere nuove elezioni. Con il rischio di non ottenerle, visto che la Lega è praticamente l’unico gruppo a non temerle e Mattarella potrebbe comunque lasciare Conte e Tria fino a dicembre, con o senza una nuova maggioranza.

Salvini è quindi davanti a un bivio che può molto presto rivelarsi un vicolo cieco. Il problema, per il leader leghista, è che se non può permettersi di piegarsi, obiettivamente il Paese non è nelle condizioni di andare allo scontro con l’Ue sul debito. Come se ne esce? Ecco il dubbio amletico: andare all-in, tentare cioè di andare a elezioni politiche per “capitalizzare” il consenso raccolto alle europee, prendersi la maggioranza e arrivare a Palazzo Chigi; oppure, accontentarsi con realismo dello status quo, sperando di poter continuare la mano che lo ha portato al 34 per cento, cannibalizzando 5Stelle e Forza Italia.

In fondo, seppure con una affluenza molto inferiore rispetto alle politiche, le due forze di governo rappresentano ancora oltre il 51 per cento dell’elettorato, segno che gran parte dei loro voti si sono mossi all’interno dell’area governativa. E la clamorosa crescita di consenso della Lega (dal 17 al 34 per cento in poco più di un anno), staranno riflettendo a Via Bellerio, potrebbe essere in gran parte dovuta proprio al gradimento dell’attuale esperienza di governo.

Ma nessuna delle due strade è priva di rischi. La seconda può portarlo, nonostante tutta la propaganda, le parole d’ordine via social, le polemiche con la Commissione, ad essere in fin dei conti il vicepremier di un governo che a dicembre si sarà piegato ai diktat europei – e magari anche ad avere un commissario di peso ma non leghista, o leghista ma marginale. Per non parlare della inesorabile azione della magistratura che ha iniziato (vedi Siri, Rixi e Garavaglia) con la politica del carciofo – si sta mangiando la compagine governativa della Lega foglia dopo foglia. Il rischio, insomma, è quello della cottura a fuoco lento.

Molti vedono nella prima opzione quella più vantaggiosa – porre fine all’ircocervo gialloverde e tornare alla più naturale alleanza di centrodestra – ma non ne vedono i rischi (ma esiste ancora il “centrodestra” con questa Forza Italia?).

Se va all-in, che ottenga o meno il voto anticipato già a fine settembre, contro Salvini si scatenerà l’inferno – procure, Quirinale, Ue – anche perché in caso di elezioni, e di maggioranza sovranista in Parlamento, sarà questa ad eleggere nel 2022 il prossimo presidente della Repubblica. Una eventualità che i molti nemici del leader leghista – dalla sinistra politica, mediatica e giudiziaria, ai dominus europei – faranno di tutto per scongiurare. E possiamo sbagliarci, ma non ci pare che la Lega sia ancora attrezzata per la battaglia finale che si aprirebbe. Una tempesta perfetta che nel 2011 ha spazzato via, con la violenza che ricorderete, anche un Silvio Berlusconi.

Non ci sembra che sia ancora attrezzata in realtà per nessuno dei due scenari. Né per l’assalto finale a Palazzo Chigi, né per reggere una guerra di trincea.

Straordinario animale politico nella conquista dei consensi, Salvini sta faticando a entrare nella modalità uomo di governo, “statista” direbbe qualcuno. E, soprattutto, la sua Lega, catapultata nel giro di un anno da outsider a “partito della nazione”, una destra nazionalista capace di convincere anche ceti produttivi e “moderati”, ha fino ad oggi sottovalutato due armi fondamentali per combattere la battaglia del potere: l’ancoraggio internazionale e la cultura politica. Su entrambi questi aspetti è molto indietro. Ha sottovalutato sia l’importanza di avviare un progetto di “egemonia culturale”, per far diventare mainstream le idee conservatrici e liberali, coinvolgendo accademici, intellettuali, personalità dei media e della cultura (un errore commesso dallo stesso Berlusconi), sia il ruolo strategico che può giocare uno stretto rapporto con l’amministrazione Trump per il nostro Paese in generale e per l’affermazione della Lega in particolare.

Alcune mosse di Salvini sembrano indicare tuttavia che qualcosa forse si sta muovendo. Il vicepremier continua a lanciare proposte mai portate al tavolo di Palazzo Chigi, come Conte si era raccomandato di non fare, e domenica e lunedì sarà a Washington per incontrare il vicepresidente Usa Mike Pence e il segretario di Stato Pompeo. Dall’America di Trump potrebbe passare la strada che porta a Palazzo Chigi.

Infine una suggestione, se i due vicepremier fossero coraggiosi e si fidassero l’uno dell’altro, una terza via ci sarebbe, di sfondamento: una crisi per dare il benservito a Conte, ormai uomo del Colle, e imporre a Mattarella un loro uomo, o persino uno di loro due. Potrebbe rifiutarsi?

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