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Ong e agenzie Onu sopra la legge: tra abusi sessuali, corruzione e aiuti a miliziani e jihadisti

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Decine di milioni di persone nel mondo, vittime di conflitti, di calamità naturali, di politiche economiche fallimentari, corruzione, malgoverno, dipendono del tutto o in parte, anche per lunghi periodi, dagli aiuti forniti dalla cooperazione internazionale. I rifugiati e gli sfollati da soli sono circa 60 milioni. Ad assisterle provvedono alcune agenzie Onu – Acnur, Unicef, Pam… – e migliaia di organizzazioni non governative, locali e internazionali.

Da qualche settimana sul personale impiegato a vario titolo nella cooperazione internazionale circolano notizie “assolutamente raccapriccianti”, per dirla con il primo ministro britannico Theresa May. Un primo scandalo ha coinvolto due delle più accreditate ong internazionali: Oxfam e Save the Children. The Times il 9 febbraio ha rivelato che nel corso degli anni, almeno a partire dal 2006, numerosi dipendenti hanno tenuto “comportamenti sessuali inappropriati”, sanzionati tutt’al più con la sospensione dall’incarico e persino autorizzati a rassegnare le dimissioni senza subire procedimenti disciplinari, “per consentire una loro uscita di scena graduale e dignitosa”, il che ha consentito ai colpevoli di essere assunti da altre ong. A fine febbraio l’attenzione si è spostata in Siria. La Bbc ha infatti pubblicato la denuncia circostanziata di una operatrice umanitaria, Danielle Spencer, secondo cui da anni in Siria si verificano casi di donne e ragazze che, per ottenere aiuto per sé e per i famigliari, sono costrette ad avere rapporti sessuali con gli incaricati di assisterle. Ma le agenzie Onu, l’Acnur e l’Ocha, hanno fermato le inchieste e chiuso gli occhi.

Un terzo scandalo riguarda l’Uganda, secondo l’Acnur il miglior luogo al mondo in cui chiedere asilo per la sua esemplare volontà di accoglienza e integrazione: libertà di circolazione e tutto gratuito, casa, cibo, istruzione scolastica, servizi sanitari. In realtà ricevuti alcuni attrezzi agricoli e utensili domestici, materiali per costruire un riparo e le prime razioni di cibo, i rifugiati di solito si devono arrangiare. Ma lo scandalo è un altro. All’inizio di febbraio Rose Malango, rappresentante Onu per l’Uganda, ha riferito al quotidiano locale Daily Monitor di aver scoperto che il numero dei rifugiati presenti nel paese – ufficialmente 1,4 milioni – è stato gonfiato, verosimilmente per ottenere più fondi dall’Onu e dai donatori internazionali che sostengono quasi tutti i costi di assistenza ai profughi. Non solo. I primi accertamenti hanno individuato frodi – ad esempio, falsi documenti relativi a consegne mai effettuate di generi alimentari – organizzazioni che praticano la tratta di donne e bambine, destinate alla prostituzione e a matrimoni forzati, addetti che fanno pagare ai rifugiati dei servizi che dovrebbero essere gratuiti.

Tutti sono coinvolti in Uganda: governo, ong e Acnur. L’agenzia per i rifugiati si è affrettata ad assicurare che, insieme al governo ugandese, sta già rivedendo e rafforzando controlli e monitoraggi per combattere la corruzione e proteggere donne e bambine. A Stati Uniti, Unione Europea e Gran Bretagna che minacciano di sospendere i finanziamenti, il primo ministro ugandese Ruhakana Rugunda però replica: “Quanto emerso non cambia né compromette il primato dell’Uganda e il suo indiscusso impegno in favore dei rifugiati”.

L’amministratore delegato di Oxfam, Mark Goldring, si è addirittura risentito per “l’intensità e la ferocia degli attacchi” alla sua ong, protestando che si stava ingigantendo e manipolando lo scandalo: “Alla fine, che cosa abbiamo mai fatto? – ha detto intervistato dal quotidiano britannico The Guardian – mica abbiamo ucciso dei neonati in culla!”. Per calmare i donatori internazionali che hanno subito interrotto l’erogazione dei fondi, il direttore esecutivo della ong, Winnie Byanyaima, ha promesso che cose del genere non succederanno più: “Oxfam farà ammenda e procederà a una completa riorganizzazione, ma non deve assolutamente morire, il mondo ha bisogno di noi”.

Anche i profughi siriani hanno bisogno di aiuto, disperatamente. Onu e ong sembra che si giustifichino di aver sorvolato per anni sugli abusi sessuali commessi dai dipendenti locali dicendo che solo loro possono accedere a certi luoghi dove è richiesta assistenza.

Arbitri di ciò che è bene e male, al di sopra di ogni critica poiché la loro causa è indiscutibilmente buona. Così si presentano le organizzazioni non governative e le agenzie dell’Onu. Ma questi scandali, che sono solo la punta dell’iceberg a detta di chi conosce il mondo della cooperazione internazionale, ne rivelano aspetti che sollevano dubbi sulla moralità, l’integrità non solo di singoli dipendenti, che già sarebbe grave, ma dell’apparato umanitario nel suo insieme, quella “industria della solidarietà” descritta così bene nei suoi lati oscuri, torbidi, dalla giornalista Linda Polman (Mondadori, 2009).

Arbitri di ciò che si può o non si può fare, le ong scendono addirittura a patti con il diavolo quando, per raggiungere le popolazioni in difficoltà, acconsentono a pagare i gruppi armati per attraversare i loro territori; o quando accettano che nei campi profughi vivano i cosiddetti refugee warriors, i miliziani profughi, che si mescolano e si nascondono tra i civili: una tattica abituale al punto che – scrive Linda Polman – “secondo alcune stime, tra il 15 e il 20 per cento degli abitanti dei campi profughi del mondo sono refugee warriors che tra un pasto e un trattamento medico portano avanti le loro guerre”.

“Grazie ai proventi delle trattative con le organizzazioni internazionali – sostiene Linda Polman – i gruppi in lotta mangiano e si armano, oltre a pagare i loro seguaci” e questo influisce in maniera decisiva sull’intensità e sulla durata delle guerre”. Quando nel 1991 i clan somali hanno scatenato la guerra civile dopo la caduta del dittatore Siad Barre, la comunità internazionale si è mobilitata per soccorrere le popolazioni colpite da carestia. Ma i clan mettevano dei posti di blocco e i convogli se volevano proseguire dovevano pagare una sorta di dazio in generi alimentari, medicinali e denaro pari fino all’80% del valore degli aiuti trasportati. Quelli che provavano a forzare i blocchi perché avevano ricevuto l’ordine di non pagare venivano attaccati. Qualche Ong ha minacciato di lasciare il paese vista la situazione. Quasi tutte hanno accettato il sistema pur di raggiungere le comunità a rischio. Adesso in Somalia è al Shabaab, il gruppo jihadista legato ad al Qaida, a farsi pagare quando c’è bisogno di intervenire nelle regioni che controlla. Durante la carestia del 2011 ha preteso da ogni ong una “tassa di registrazione” di circa 10.000 dollari.

Un caso estremo, per le conseguenze di lungo periodo, è quello dei campi profughi allestiti nel 1994 nella Repubblica Democratica del Congo (allora Zaire), in Burundi e in Tanzania per accogliere oltre due milioni di persone fuggite dal Rwanda allo scoppio della guerra civile seguita al tentativo Hutu di sterminare l’etnia Tutsi. A lasciare il paese, inseguiti dall’esercito Tutsi formatosi in Uganda e intervenuto per mettere fine al genocidio, erano gli Hutu, inclusi i militari e l’intera classe politica superstiti. I campi profughi dell’Acnur, specie quelli del Congo orientale, di fatto sono diventati, sotto gli occhi degli operatori umanitari, quartieri generali delle milizie Hutu che hanno continuato il massacro dei Tutsi in patria e di quelli residenti in Congo tornando ogni sera nei campi. Da allora nell’est del Congo non si è ancora smesso di combattere.

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