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La partita siriana volge al termine? Tutte le pedine sulla scacchiera

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La partita a scacchi siriana si avvia alla conclusione e i tre maggiori player – Russia, Turchia ed Iran – ormai stanno posizionando le loro pedine finali per giungere nelle prossime tornate negoziali pronti per attuare la spartizione della Repubblica araba di Siria.

La Russia di Vladimir Putin, dopo tre anni di conflitto al fianco del rais di Damasco, si prepara a lasciare il campo. Ma Assad spera nel vecchio alleato russo per espellere le ultime sacche di resistenza anche dal nord del paese e allestire una potente forza militare per riprendere le terre ad est del fiume Eufrate, sotto controllo dei curdi-siriani. Ma gli stessi curdi siriani strizzano l’occhio al nuovo Leone di Damasco. Dopo Afrin, dove sono stati massacrati dalle forze militari turche, sperano di trovare un accordo con l’autocrate alawita, ma lasciando le porte aperte anche al presidente francese Emmanuel Macron che nei giorni precedenti al presunto attacco chimico di Douma del 7 aprile – attacco che per l’asse Londra-Parigi-Washington è di responsabilità di Damasco – aveva lanciato un supporto politico-militare alle milizie della SDF (Syrian Democratic Force). La mossa ha attirato la furia del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Ankara considera le milizie curdo-siriane espressione del PKK, definendoli terroristi. Da gennaio la Turchia la lanciato un’operazione militare nel nord della Siria che punta a scacciare la presenza curdo-siriana dai confini meridionali per sostituirli con uno pseudo-stato governato dai ribelli siriani filoturchi del Free Syrian Army.

Assad per ora punta ad eliminare le ultime sacche di resistenza ribelle che si trovano a sud di Idlib. Dopo la riconquista del distretto del Ghouta orientale, Damasco ha due fronti, ma solo uno in cui è obbligata ad impegnare il grosso delle sue forze militari: il fronte ad est di Dei-ez-Zorr. Ad est dell’Eufrate, che separa la zona governativa siriana da quella curdo-siriana, sono presenti il grosso dei campi petroliferi necessari a coprire le future spese di ricostruzione postbellica, che ammontano a circa 400 miliardi di dollari. Per ora il fronte rimane in standby visto che Damasco vuole rafforzare le sue posizioni sull’asse Damasco-Homs-Hama-Aleppo, grazie al sostegno logistico dell’Iran e della Russia. Il vertice di Ankara di inizio aprile ha suggellato il trio Mosca-Ankara-Teheran che sta organizzando un nuovo accordo in stile Sykes-Picot. Se questo verrà portato a termine Teheran e Mosca potranno rivendicare di aver vinto la guerra siriana due volte: in primis hanno mantenuto Assad a Damasco, poi di aver portato dalla loro parte, in un certo senso, un membro storico della Alleanza Atlantica come la Turchia, che durante la Guerra Fredda ha rappresentato all’epoca il principale argine contro l’espansione sovietica in Medio Oriente.

A Washington sicuramente non rimangono a guardare mentre il Medio Oriente rischia di andare tra le braccia non proprio benefiche dell’asse Teheran-Mosca, considerando l’ambiguità turca nella regione. Gli USA hanno basi militari nella “Repubblica” turca di Erdogan, ma stanno pensando a luoghi alternativi dove riposizionare i propri assetti militari. L’intenzione del presidente Donald Trump è di ritirare le truppe statunitensi dalla Siria sostituendole con una coalizione araba a guida saudita. Washington spera oltretutto di avere Israele nella futura coalizione che, nei piani di Washington, dovrebbe rimpiazzare i contingenti statunitensi, ma Tel Aviv per adesso vuole rimanere fuori dal conflitto siriano, se l’Iran non minaccia il territorio di Israele.

Il grande gioco dei Boots on the Ground
Russi, iraniani (con gli Hezbollah), turchi, americani, francesi e britannici sono in campo in Siria, ognuno con i loro interessi. Se l’asse Russia-Teheran-Hezbollah, con una presenza militare abbastanza cospicua, garantisce alle truppe siriane di Assad, che sono comandate da alcuni ufficiali vicini agli iraniani, supporto logistico e militare, ognuno ha i suoi interessi geopolitici. La Russia, con una base navale a Tartus ed una aerea a Hmeimim, nei pressi di Latakia, dov’è un centro per la logistica, ha raggiunto lo scopo che si era prefissata dall’inizio dell’intervento militare: consolidare la sua presenza politico-militare e proteggere le sue basi, necessarie per proiettare la sua forza militare nel Mediterraneo.

Oltre alle truppe regolari sono in campo, ufficialmente, 4 mila mercenari russi della compagnia privata Wagner. I mercenari russi per il Cremlino sono indispensabili per evitare di utilizzare le sue truppe di terra in operazioni rischiose. Mosca non lascerà mai il paese mediorientale, ma vuole evitare pantani nella regione. Nonostante il “ritiro” annunciato lo scorso 11 dicembre 2017, la Russia continua ad inviare nel paese equipaggiamento militare per via marittima. Nei giorni precedenti all’attacco della coalizione anglo-franco-statunitense, avvenuto tra la notte del 13 e il 14 aprile contro postazioni del regime, erano state segnalate diverse unità navali russe che si stavano dirigendo in Siria, con un carico di mezzi e corazzati, forse per rinforzare le forze armate siriane.

La cosiddetta alleanza UK-Francia-USA è presente in Siria, nella zona controllata dai curdi-siriani. Per gli USA, attualmente, sono in campo 2 mila uomini. Commando di forze speciali sono stanziati su tutta la linea del fronte nord-orientale, maggiormente a Manbij e a Deir-ez Zhor. Oltre ai regolari, come per Mosca, sono al fianco dei contractor americani che si occupano di azioni belliche e di supporto logistico. Secondo le stime ufficiali nel Siraq (Siria ed Iraq) operano quasi 5 mila “mercenari” statunitensi, 400 per operazioni di “sicurezza”. Sono presenti contingenti USA nel sud-est, di preciso ad Al-Tanf, nelle vicinanze del confine siro-giordano.

Il presidente vorrebbe un ritiro del contingente in tempi brevi, ma il Pentagono sta tentando di frenare, visto anche il pericolo di una espansione di Teheran, nel momento in cui le truppe USA rientreranno in patria. Lo stesso Donald Trump ha chiesto agli alleati regionali di farsi carico della ricostruzione della Siria e di inviare sul campo una forza di coalizione dei paesi arabi, sotto comando saudita. Per ora la sola Riad si è offerta volontaria ad inviare truppe, ma senza trovare appoggio dagli altri paesi musulmani. L’Egitto si è opposto fermamente ad inviare truppe dichiarando, per voce dell’ex sottosegretario all’intelligence del Cairo Mohamed Rashad, che le forze armate egiziane non sono mercenari da affittare per interferire negli affari interni degli altri paesi.

I francesi hanno un contingente nella Siria settentrionale sotto giurisdizione curdo-siriana. Le forze di Parigi sono schierate principalmente nella zona di Kobane. Infine i britannici completano il quadro dell’asse Londra-Parigi-Washington. Secondo la tradizione “British” Londra sta utilizzando i suoi commandos SAS (Special Air Service), rendendo complicato tracciare i loro movimenti e le loro probabili basi nel nord della Siria.

La Turchia, nonostante sia membro NATO, ha una sua agenda parallela. Vuole creare una zona cuscinetto nel nord della Siria per cacciare i curdi-siriani dalle zone di confine ed avere voce in capitolo per il futuro postbellico della Siria.

Il problema principale, forse anche per Mosca, è la presenza dei combattenti sciiti, guidati dagli ufficiali iraniani e dai pasdaran, inviati nel paese dalla Repubblica Islamica. Definiti la “Legione” sciita, oltre agli Hezbollah libanesi, sono giunti in Siria combattenti dal Pakistan, Afghanistan e dal vicino Iraq, il cui governo è sciita e filo-Teheran, e allo stesso tempo Baghdad coopera con i paesi occidentali e con gli USA.

Supportano in prima linea le truppe di Damasco ma in futuro potrebbero diventare una pericolosa minaccia per Israele, che ha spesso compiuto raid aerei su basi militari iraniane presenti nella zona governativa della Siria, come l’8 aprile quando ha colpito la base T4, situata tra Homs e Palmira. Il contingente iraniano può contare su diverse installazioni che Damasco ha messo a sua disposizione, come Azzan, aeroporto che è situato ad est della capitale siriana. Il progetto iraniano è quello di creare un’autostrada sciita che parta dall’Iran e attraversi l’Iraq e la Siria per giungere in Libano. Secondo una analisi uscita sul New York Times, il prossimo scontro, probabile, sarà quello tra Iran e Israele.

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