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I rifugiati si possono rimpatriare se la minaccia dalla quale sono fuggiti viene meno. Ma il problema dell’Italia è un altro

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Si possono rimpatriare i rifugiati se la minaccia dalla quale sono fuggiti viene meno? La Turchia e il Libano lo stanno facendo. All’inizio di agosto la Turchia, che ospita 3,7 milioni di rifugiati in gran parte siriani, ha notificato l’ordine di espulsione entro 30 giorni a più di mille persone che sono già state trasferite in tre centri, in attesa di essere portate oltre frontiera. Il Libano, dove i rifugiati sono quasi un milione, ha cominciato a rimpatriare i siriani da qualche mese. Il personale dell’Unhcr sostiene di ricevere “rapporti costanti di rifugiati costretti a firmare” il rimpatrio volontario. 

Anche il Camerun il 29 giugno ha avviato un piano per il ritorno a casa di 295.000 rifugiati centrafricani, fuggiti a partire dal 2013, l’anno in cui un colpo di stato ha destabilizzato il loro paese e ha scatenato una guerra civile in seguito alla quale una ventina di gruppi armati hanno assunto il controllo di gran parte del territorio nazionale.

I rifugiati originari del Burundi ospitati in un campo profughi in Tanzania a luglio hanno chiesto aiuto perché temono di essere rimandati a casa a forza. Insieme a oltre 200.000 connazionali erano fuggiti nel 2015 quando il presidente Pierre Nkurunziza reprimeva violentemente le manifestazioni di protesta contro la sua decisione di candidarsi per un terzo mandato, violando la costituzione. Dal 2018 il Tanzania esercita pressioni affinché rientrino in patria.

Amnesty International e altre organizzazioni non governative difendono il diritto dei rifugiati a restare al sicuro. È illegale – sostengono – rimandare dei profughi nel paese da cui sono fuggiti perché la loro vita e la loro libertà erano minacciate. In Siria e Repubblica Centrafricana ancora si combatte, dicono, il Burundi è governato dallo stesso presidente autoritario. Turchia e Libano replicano che i rifugiati non corrono pericolo tornando in Siria perché i combattimenti ormai sono circoscritti. Dalla Turchia, osserva il governo di Ankara, sono già rientrati in patria spontaneamente più di 300.000 siriani. La giustificazione del Camerun è che in Centrafrica a febbraio è stato firmato un accordo di pace. Il rimpatrio è stato concordato con il governo centrafricano e con l’Unhcr. Il presidente Nkurunziza in persona raccomanda ai suoi connazionali di tornare a casa; ormai, assicura, la crisi è superata. Già nel 2017 Burundi, Tanzania e Unhcr in effetti hanno organizzato il rimpatrio assistito di oltre 33.000 rifugiati, tuttora sani e salvi.

Questi esempi dimostrano che decidere quando un rifugiato può tornare in patria in sicurezza è “una questione delicata”, per usare l’espressione di Liz Throssell, portavoce dell’Unhcr in Libano. Ma quando una crisi è effettivamente risolta, quando una guerra è davvero finita, quando il rimpatrio non comporta problemi, nulla impedisce a un rifugiato di tornare a casa, una scelta peraltro di quasi tutti i profughi, rifugiati e sfollati, che vivono sperando nel ritorno, il più presto possibile, chiedendo al mondo di far sì che quel giorno arrivi.

Anche l’Italia potrebbe proporre il rimpatrio – volontario, assistito… – dei rifugiati da paesi come la Siria, l’Iraq, la Somalia… Ma il problema italiano non sono le poche migliaia di stranieri che ogni anno ottengono lo status giuridico di rifugiato bensì le decine di migliaia che, entrati illegalmente in Italia essendosi dichiarati profughi e avendo chiesto asilo, ogni anno hanno invece ottenuto protezione sussidiaria o un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Si tratta di autorizzazioni a risiedere in Italia per un periodo definito (rispettivamente tre e un anno) e sono rinnovabili. I titolari di protezione sussidiaria vengono ospitati perché, pur non avendo i requisiti per ottenere asilo, si ritiene che se tornassero nel loro paese di origine andrebbero “incontro al rischio di subire un danno grave”. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari è stato concesso, fino all’entrata in vigore del primo decreto sicurezza lo scorso anno, per “gravi motivi di carattere umanitario”. In entrambi i casi i rinnovi dipendono dal persistere delle condizioni che hanno portato a concedere il soggiorno in Italia la prima volta. Per molte di queste persone decidere se possono tornare a casa in sicurezza è molto più che una “questione delicata”.

Quando, ad esempio, potrà rientrare in Benin il ragazzo che ha paura dei creditori del padre, commerciante morto in un incidente d’auto mentre trasportava un carico di frutta che è andato perduto? Smetterà mai di volerlo morto in Gambia lo zio del ragazzo che è scappato dopo aver perso un camion di sua proprietà? E, in Ghana, quando sarebbe al sicuro dall’invidia il ragazzo fuggito perché gli uomini che hanno fatto morire con la stregoneria l’imam suo padre minacciano di morte anche lui? E ancora, finiranno mai di combattere per il trono e uccidere la gente i due re del villaggio del ragazzo nigeriano che per non morire è venuto in Italia? Domande senza risposta. E che dire della giovane nigeriana che ha chiesto asilo perché suo marito la vuole uccidere: come accertare se l’uomo ha rinunciato all’intenzione omicida? O le sue connazionali: una minacciata dal nonno che prima ha ucciso per soldi suo padre e adesso da lei esige l’estinzione di un debito: resterà in Italia fino alla morte del nonno? E l’altra, rimasta orfana da bambina, allevata dai nonni che però non l’hanno protetta dai maltrattamenti di uno zio: prima di decidere se rinnovarle il permesso di soggiorno bisognerà verificare se lo zio cattivo ha messo la testa a posto e non intende più farle del male?

Al confronto decidere se l’ultimo accordo di pace in Repubblica Centrafricana ha proprio messo fine alla guerra civile o se il presidente del Burundi davvero rinuncerà d’ora in poi a reprimere il dissenso con la violenza è cosa da poco.

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