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Dal pangolino agli asini: tutte le specie animali a rischio in Africa a causa delle superstizioni cinesi

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“Una farfalla batte le ali in Brasile e provoca un uragano in Texas”, dice la teoria del caos. Un nuovo coronavirus compare a Wuhan, in Cina, e nel cuore dell’Africa un bracconiere di punto in bianco scopre che nessuno più vuole i pangolini che fino a un giorno prima non faceva a tempo a cacciare che già partivano alla volta del porto cinese di Tianjin Xingang, tanto erano richiesti sul mercato nero.

Il 24 febbraio la Assemblea nazionale del popolo ha vietato il consumo e la vendita della carne di animali selvatici riservandosi di inserire il provvedimento nella legge sulla protezione della fauna selvatica entro la fine dell’anno. La carne di pangolino è tra le più pregiate in Cina e nel sud est asiatico e, siccome è molto costosa, potersene cibare è considerato uno status symbol. I cinesi sono anche convinti che dalle scaglie dei pangolini opportunamente trattate si ricavino farmaci molto efficaci per curare malattie della pelle, paresi, cancro, artrite e cattiva circolazione, drenare il pus, aumentare la produzione di latte materno, migliorare le prestazioni sessuali maschili. Non ci sono evidenze scientifiche a provarlo. In realtà le scaglie dei pangolini sono fatte di cheratina, la stessa sostanza delle unghie umane. Tuttavia costano migliaia di dollari al chilogrammo.

Dopo aver decimato quelli asiatici, i cinesi hanno incominciato a importare i pangolini africani dal Camerun, dalla Nigeria, dal Ghana e da altri Paesi. La African Wildlife Foundation stima che ogni anno in Africa i bracconieri ne uccidano in media 2,7 milioni. Sono stati dichiarati specie protetta perché di questo passo rischiano l’estinzione. Nonostante ciò il bracconaggio non si è fermato e i pangolini hanno continuato a essere i mammiferi più contrabbandati del mondo.

Non per mangiarli, ma si deve comunque in gran parte ai cinesi se anche gli elefanti africani e i rinoceronti sono considerati specie a elevato rischio di estinzione, sterminati ogni anno a migliaia in Africa da bracconieri dotati di moderni mezzi di trasporto, comunicazione e caccia. I rinoceronti si uccidono solo per il corno, molto richiesto nei Paesi asiatici, tra cui primeggia appunto la Cina, in cui è diffusa la convinzione che sia un potente afrodisiaco. Di nuovo è una credenza infondata dal momento che è fatto di cheratina come le scaglie del pangolino. Eppure vale 60-65 dollari al grammo e un corno di rinoceronte nero pesa fino a tre chilogrammi, quattro quello del rinoceronte bianco. All’inizio del secolo scorso in Asia e Africa vivevano circa mezzo milione di rinoceronti. Oggi si calcola che siano non più di 30.000.

Un secolo fa gli elefanti africani erano circa 12 milioni. Ne restano adesso più o meno 400.000 esemplari. È soprattutto per le zanne che vengono cacciati: per farne ornamenti e soprammobili, persino da esibire nel soggiorno di casa, intere, come una scultura. Fino all’inizio del 2018 la Cina importava il 70 per cento dell’avorio frutto di bracconaggio in Africa. Poi ne ha messo al bando la vendita, ma per ottenere i risultati auspicati occorre che il governo si impegni a contrastarne il contrabbando che nel frattempo ha prosperato. I cinesi forse non lo sanno, ma c’è di peggio. In Africa al bracconaggio e al contrabbando di avorio partecipano anche dei gruppi jihadisti. Secondo la Elephant Action League, gli al Shabaab ad esempio, i terroristi islamici somali legati ad al Qaeda, si procurano con il traffico di avorio circa il 40 per cento dei fondi di cui dispongono.    

L’elenco delle specie animali decimate per colpa del comportamento dissennato dei cinesi non è finito. Anche gli asini stanno scomparendo in Africa per rispondere all’insaziabile richiesta asiatica, cinese soprattutto. Dalla pelle d’asino bollita i cinesi ricavano una gelatina chiamata “ejiao” molto pregiata. Sciolta nell’acqua la usano come cibo, bevanda e crema per il viso. Ritengono inoltre che abbia grandi proprietà terapeutiche e con essa confezionano medicine per curare la pressione alta, l’anemia, l’insonnia, il mal di testa, la tosse. Poteva mai mancare? Le attribuiscono inoltre proprietà afrodisiache. Il suo prezzo può arrivare a 388 dollari al chilogrammo. Nel 1990 si stima che in Cina ci fossero 11 milioni di asini. Oggi ne restano tre milioni. Quindi da una decina di anni per rispondere alla domanda – in media dieci milioni di capi all’anno – i commercianti cinesi si sono rivolti ai Paesi africani dove subito si sono moltiplicati i macelli specializzati e si è sviluppato anche un redditizio mercato nero di capi rubati, uccisi ed esportati illegalmente. Per fare in fretta, ci sono dei macelli in cui gli animali vengono uccisi a martellate o scuoiati vivi. Solo di recente alcuni governi si sono resi conto del rischio che la specie si estingua, in questo anche sollecitati dalla popolazione rurale che degli asini si serve per il trasporto soprattutto di acqua e legna da ardere per il fabbisogno domestico quotidiano. In Kenya, ad esempio, dieci anni fa gli asini erano 1,8 milioni. Adesso ne restano circa 600.000.

“L’epidemia di coronavirus sta rapidamente inducendo la Cina a rivedere il proprio rapporto con la natura”, commentava su The Guardian il 25 febbraio Steve Blake, portavoce a Pechino dell’associazione WildAid. “I provvedimenti possono servire a salvare una quantità di specie in via di estinzione, ma solo se il bando sarà mantenuto – avverte Jeff He, il direttore per la Cina dell’International Fund for Animal Welfare – approvo il bando perché indica che il governo cinese è determinato a cambiare una tradizione millenaria”. Ma sradicarla non sarà facile. Nel 2003, quando si scoprì che alcuni animali selvatici trasmettevano la SARS, fu proibita la vendita di zibetti e serpenti. Ma la loro carne fa tuttora parte dell’alimentazione cinese. L’effetto del bando, osserva il virologo di Hong Kong Leo Poon, dipende dalla forza di volontà del governo di far rispettare la legge: “la cultura non si può cambiare dall’oggi al domani, ci vuole tempo”. 

Ma non è solo questione di bandire la medicina tradizionale, di sensibilizzare al rispetto della natura. C’è un’altra specie animale a rischio, a causa dei cinesi: le api. La rivista Tempi ha appena pubblicato la denuncia della Copa-Cogeca, che riunisce due organizzazioni di agricoltori dell’Ue, secondo la quale il miele cinese importato in Europa costa più di due terzi meno di quello dei produttori europei perché contiene tanto sciroppo di zucchero, ingrediente molto meno costoso. Basterebbe a provare la frode il fatto che dal 2000 la produzione cinese è aumentata dell’88 per cento mentre gli alveari solo del 21 per cento. Si tratta di concorrenza sleale. Ma il danno va oltre. La concorrenza del miele cinese mette in ginocchio i produttori europei che sono 650.000 e, provvedendo al ripopolamento dei loro alveari, compensano in parte la costante diminuzione delle api che, insieme ad altri insetti impollinatori, sono essenziali per il 78 per cento delle specie vegetali selvatiche e l’84 per cento di quelle alimentari coltivate in Europa. Ma se la concorrenza della Cina continuerà, molti saranno costretti a chiudere l’attività e milioni di api spariranno. E poi capita che un nostro amministratore debba chiedere umilmente scusa e prostrarsi perché nell’enfasi di un’intervista ha osato dire che i cinesi mangiano topi vivi.

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