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Attacco alla separazione dei poteri: come violentare la democrazia pur di far fuori l’avversario politico

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Il triste finale di partita di Emma Bonino, Renzi e Zingaretti, a fronte della lezione di diritto e cultura liberale di Casini

Primato della politica. Quante volte sentiamo i nostri parlamentari e leader di partito riempirsi la bocca di questa espressione per rivendicare il ruolo preminente della politica, per esempio, nei confronti dei “poteri” economici e finanziari? Ebbene, ieri in Senato è andata in scena la resa della politica, l’abdicazione a favore della magistratura, come purtroppo già molte volte in questi ultimi trent’anni a partire da Mani Pulite (ce le ricorda Daniele Meloni oggi su Atlantico). Una deriva antidemocratica e, questa sì, populista, che nessun leader politico è riuscito a contenere: chi ci ha provato e ne è stato travolto e chi invece l’ha addirittura cavalcata secondo le convenienze del momento, con alterne fortune. Di sicuro, c’è stato dal 1992 ad oggi un progressivo trasferimento di potere dalla politica alla parte più militante, minoritaria ma consistente, della magistratura.

Il principio calpestato ieri dalla decisione del Senato di autorizzare il Tribunale dei ministri di Catania a procedere nei confronti di Matteo Salvini non è tanto il garantismo, ma la separazione dei poteri. Dopo l’abolizione dell’immunità parlamentare nel 1993, sotto la pressione mediatico-giudiziaria delle inchieste di Mani Pulite, un altro grave strappo all’equilibrio tra i poteri che non sarà facile ricucire. Un pericoloso precedente che incombe da oggi sui presidenti del consiglio e sui ministri, che potranno essere mandati a processo per i loro atti di governo da una maggioranza politicamente avversa. È l’apertura di un vero e proprio vaso di Pandora, la rottura di quell’equilibrio che distingue una competizione democratica, anche dura, da una guerra civile permanente.

In gioco, infatti, c’è molto più che il politico Salvini, il leader dell’opposizione di oggi. C’è la funzione di ministro, ci sono le prerogative di un governo nell’attuazione del programma sui cui ha ottenuto la fiducia del Parlamento, espressione della sovranità popolare. In gioco, insomma, c’è l’autonomia della politica. Se la magistratura si mette a perseguire i ministri per gli atti di governo, e il Parlamento lo permette, è evidente che potere esecutivo e legislativo sono subordinati a quello giudiziario.

La garanzia prevista dalla legge costituzionale n. 1 del 1989 che ieri la maggioranza dei senatori ha ritenuto di stracciare, per mera convenienza politica di far fuori per via giudiziaria o mettere sulla graticola l’avversario, è attribuita alla carica, non alla persona. Lo stesso Salvini ha commesso a nostro avviso un errore a non difenderla in linea di principio, per sé e perché arrivasse intatta ai suoi successori, pensando evidentemente di lucrare a sua volta un qualche vantaggio politico dal “farsi processare”, o dal mostrare all’opinione pubblica di non voler “sfuggire al processo”, di non temere il giudizio sul suo operato da ministro. Il vulnus si è consumato ieri con quel voto, a prescindere da come si concluderà il procedimento nei suoi confronti.

Da ministro dell’interno ha agito coerentemente con l’indirizzo politico del governo di cui faceva parte. Né il Consiglio dei ministri né il presidente del Consiglio, né altri ministri si sono dissociati in quei quattro giorni del presunto sequestro. Non solo non esiste nemmeno una parola di presa di distanza, ma ne esistono, al contrario, di condivisione di responsabilità. D’altra parte, se il presidente del Consiglio reputa inaccettabile e ingiustificabile l’atto politico o amministrativo di un ministro, ha il potere, ai sensi della legge n. 400 del 1988, di sospenderne l’adozione. Di più: se ravvisasse gli estremi di un reato, avrebbe il dovere di intervenire (“non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”, art. 40 del codice penale).

Una menzione in questa ennesima triste pagina della democrazia italiana la merita certamente Emma Bonino, che nel suo intervento al Senato, annunciando il suo voto a favore dell’autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex ministro dell’interno, ha rispolverato un grande classico del giustizialismo: il “si difenda nel processo, non dal processo”, una tra le battute preferite di Travaglio. Come se la garanzia che una legge costituzionale attribuisce ad una carica fosse un “privilegio” personale disponibile, una prescrizione cui si può rinunciare. Altro che senso dello Stato, una sgrammaticatura istituzionale non degna del passato radicale della senatrice di Più Europa.

Quello che non ha afferrato la senatrice Bonino, nel non rilevare “nessun interesse preminente, nessuna aggressione all’Italia e nessuno stato di necessità” che giustificasse la decisione di trattenere per quattro giorni i naufraghi a bordo della nave Gregoretti (già solo organizzare i trasferimenti l’avrebbe giustificata), l’ha afferrato invece il senatore Pierferdinando Casini. Il quale nel suo intervento ha ricordato come il Parlamento fosse chiamato a valutare solo se il comportamento dell’ex ministro Salvini sia stato “condizionato da ragioni politiche” che hanno un rilievo costituzionale, ai sensi dell’art. 9, comma 3, della legge costituzionale n. 1 del 1989, cioè se sia stato posto in essere per “la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo”.

Casini non ha potuto far altro che constatare, pur non condividendole nel merito, quanto quelle azioni fossero “coerenti ed esecutive del programma del governo di cui allora faceva parte”, ricordando come la maggioranza parlamentare dell’epoca avesse “fatto di tale politica restrittiva dei flussi migratori uno dei punti centrali del contratto di governo e della fiducia che il Parlamento ha accordato all’esecutivo”. Insomma, Salvini non agì certo “in solitudine”, né in contrasto con l’indirizzo di governo.

Il fatto che la senatrice Bonino, così come il senatore Casini, non condivida quelle politiche, che abbia un’altra idea dell’immigrazione e un’altra concezione dell’interesse pubblico, non toglie che Salvini abbia agito coerentemente con le esigenze di “tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” e con il “perseguimento di un preminente interesse pubblico”, naturalmente secondo l’interpretazione, condivisibile o meno, del governo e della maggioranza di cui faceva parte. Non rileva qui che secondo la Bonino non erano minacciati né i confini nazionali né la sicurezza e l’ordine pubblico, ma che lo fossero per Salvini e per il governo di cui faceva parte.

Questa è la ratio della norma e il senatore Casini l’ha colta in pieno:

“Nella valutazione del caso della nave Gregoretti non deve contare la nostra opinione politica, perché mandare a giudizio un ministro per il programma del governo di cui fa parte e, quindi, per gli atti che ne sono la immediata e diretta conseguenza, significa scadere nell’arbitrio e nella faziosità. La Costituzione ci chiede solo di valutare se gli atti del senatore Salvini sono frutto della valutazione che il suo governo ha fatto dell’interesse generale del Paese, non della nostra valutazione di tale interesse generale che è diametralmente opposta”.

Interesse pubblico, così come inteso dal governo dell’epoca, o interesse privato, beneficio personale diretto? Questo dovevano valutare i senatori, non se l’atto coincidesse o meno con la loro personale concezione di interesse pubblico.

Nel merito, poi, premesso che la Procura di Catania – la pubblica accusa – non ha ravvisato alcuna ipotesi di reato e ha chiesto l’archiviazione per l’ex ministro, non è chiaro chi sarebbero stati gli esecutori materiali del presunto sequestro e perché non siano stati individuati e perseguiti anche loro. Perché, nonostante sia avvenuto pubblicamente, sotto i riflettori, nessuna autorità giudiziaria e politica sia intervenuta per interromperlo. Si è trattato, in realtà, di una momentanea limitazione della libertà di circolazione, tra l’altro di persone che non avevano alcun titolo a sbarcare sul territorio italiano, dal momento che se è un dovere soccorrere i naufraghi in mare, non c’è alcun loro diritto a scegliersi la destinazione di approdo. E in tempi del tutto compatibili con l’esigenza di conciliare le loro necessità di assistenza e l’interesse pubblico a non scaricare unicamente sul nostro Paese il peso dei flussi migratori.

Si possono non condividere le modalità e ritenere che il nostro Paese debba accogliere chiunque si presenti ai nostri confini, senza eccezioni, e che ciò non presenti alcun rischio, ma è altrettanto legittima la posizione di chi pensa che sia nell’interesse pubblico contrastare e regolare il fenomeno migratorio, reprimere il traffico di esseri umani, e che lo fosse, in quella circostanza, rallentare di qualche giorno lo sbarco per organizzare la redistribuzione, che stava peraltro gestendo la Presidenza del Consiglio, e accertarsi che le persone a bordo non costituissero una minaccia per la pubblica salute e sicurezza (come tra l’altro sarebbe emerso successivamente).

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