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Apprezzabile lo sforzo di Baricco che suona la sveglia alle élites, ma cade nello stesso errore che denuncia

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Apprezzabile sforzo quello di Alessandro Baricco, su la Repubblica di ieri, nel dibattito che semplificando siamo soliti sintetizzare nell’espressione “popolo vs élite”. Articolo da leggere il suo “E ora le élite si mettano in gioco”. Apprezzabile sforzo soprattutto laddove suggerisce alle élites di smetterla di arroccarsi; di abbandonare una narrazione negazionista e autoassolutoria, addirittura complottista, fatta di bot e troll, delle recenti scelte di larghi settori dell’elettorato; basta far leva sulla paura, con i vari “project fear”, per spingerli a mutare i propri orientamenti; consiglia loro, invece, di ammettere che “la gente ha ragione” (meglio, direi, ha le sue ragioni). Insomma, una critica di tutti quegli atteggiamenti sprezzanti ben sintetizzati dall’infelice espressione usata in campagna elettorale da Hillary Clinton all’indirizzo dei sostenitori di Donald Trump: “Basket of deplorables”.

Condivisibile anche il suo allarme per “un modo di pensare” brutalmente semplicistico che si sta affermando, efficace sì a liquidare le élites che hanno fallito, ma che rischia di farci prendere clamorose “cantonate” nella comprensione di una realtà sempre più complessa e, di conseguenza, nelle soluzioni ai problemi. Insomma, di riportarci indietro di decenni.

Meno condivisibile, invece, quando Baricco sembra cadere nello stesso errore che denuncia. In quella che chiama una quasi “insurrezione” della “gente”, esattamente come le élites che critica, non riesce a scorgere null’altro che rabbia, irrazionalità, una pars destruens senza idee, valori significativi e distintivi, senza alcuna capacità di immaginare il futuro, in poche parole senza uno straccio di visione, priva di identità e tratti culturali.

Ma a ben vedere il movimento di contestazione dell’establishment che pervade le nostre società non è solo distruttivo. Vi si possono scorgere, anche se certamente in modo non strutturato, confuso e contraddittorio, valori e legittime aspirazioni, condivisibili o meno che siano. Un minimo comune denominatore è, per esempio, il tentativo di riprendere per via democratica, ossia attraverso l’esercizio del diritto di voto, il controllo di processi politici ed economici i cui centri decisionali da qualche lustro si stanno allontanando dalla cittadinanza sia fisicamente, che negli interessi a cui rispondono. Il desiderio popolare di interloquire con un ceto politico direttamente accountable, a cui si possa immediatamente chieder conto delle scelte. Certo, non in tutti i Paesi abbiamo visto la medesima capacità di creare sbocchi costruttivi, o non solo distruttivi, all'”incazzatura” dei ceti medi e medio-bassi.

Ma c’è dell’altro: quella che semplificando si usa definire “popolo vs élite” è una frattura sociale e culturale in realtà molto più complessa e profonda, come spiegato per esempio dal giornalista britannico David Goodhart nel suo libro “The Road to Somewhere” (ospitiamo un suo articolo in “Brexit. La Sfida”). Frattura che non solo ha giocato un ruolo decisivo nella Brexit, ma è presente in tutte le società occidentali a causa dell’impatto della globalizzazione. Quella tra due gruppi che Goodhart ha chiamato Anywheres e Somewheres. Due gruppi sociali legati a valori contrapposti, che vedono il mondo da due diverse prospettive: globalista, cosmopolita i primi; e più locale, comunitaria, nazionale i secondi. Istruiti e inclini alla mobilità, i primi abitano nelle grandi metropoli e ritengono un valore l’apertura. Le loro reti relazionali vanno oltre i confini nazionali, il loro status economico e sociale si fonda sui cambi di carriera: grazie alle loro competenze e professioni, se perdono il lavoro possono cambiare città o addirittura Paese e trovarne uno migliore senza difficoltà. Insomma, il loro successo e i loro legami personali non dipendono da un particolare luogo. Prosperano nella globalizzazione, che vedono come un asset, non una minaccia. Al contrario, i Somewheres sono meno istruiti e le loro vite, le loro attività sono radicate in un particolare territorio. Per costoro hanno più valore i legami famigliari, locali e nazionali, la tradizione, la sicurezza e lo stato sociale. I primi rappresentano un segmento consistente ma non maggioritario della popolazione. Tuttavia, sono più influenti e rappresentati nelle istituzioni e nei mainstream media, e tendono a vivere nella propria “bolla”. Pur essendo maggioritari, i Somewheres sono meno ascoltati e rappresentati, si sentono anzi giudicati e disprezzati e covano quindi un forte risentimento. Su questioni che hanno a che fare con l’identità, questi due gruppi tendono a votare in modo opposto.

Non condivisibile l’intervento di Baricco anche quando sembra suggerire (anche lui!) che in fondo è tutta colpa del liberismo. Un’analisi socio-economica anch’essa semplicistica e vecchia, novecentesca come quelle élites che invita a mettersi in gioco. Non si tratta tanto di redistribuire la ricchezza (lo hanno fatto troppo, e male, le nostre classi politiche, per comprare consenso, per neutralizzare il conflitto sociale…), ma di favorire le condizioni per crearne di nuova, tornando ad aprire spazi di opportunità. In questi due ultimi decenni, soprattutto in Italia non abbiamo affatto assistito ad un eccesso di liberismo. Come si può sostenerlo in presenza, nei Paesi di cui parliamo, di elevati livelli di spesa pubblica (vicini o superiori al 50 per cento del Pil), di tassazione (oltre il 40 per cento del Pil) e di debiti pubblici avviati verso il 100 per cento o, come nel caso italiano, ben oltre? Il problema, semmai, è che una porzione troppo ristretta dell’economia si pretende che sia sottoposta alle dure leggi del mercato e della concorrenza, dovendo per altro avere a che fare con una burocrazia e una fiscalità asfissianti, e la crescente bulimia regolatoria da Bruxelles al più piccolo dei Comuni. Anche il mercato del lavoro continua ad essere duale, per cui a fronte di milioni di ipertutelati, la flessibilità di cui le imprese necessitano grava tutta sulle spalle dei nuovi lavoratori, generando precarietà e insicurezza.

E se l’apertura dei commerci tra gli stati ha portato grandi benefici e innovazione, la globalizzazione non equivale certo a un mercato libero e corretto. Al contrario, pratiche sleali, politiche mercantiliste, la mancata liberalizzazione della Cina, nella latitanza delle organizzazioni internazionali che erano chiamate a vigilare, hanno provocato pesanti distorsioni e un processo di trasferimento della manifattura da occidente verso oriente, con una conseguente perdita di identità di intere comunità e ceti sociali – i cosiddetti “dimenticati”.

La “gente” può sembrare accontentarsi di un sussidio, ma ciò che realmente è sparito negli ultimi due decenni è il senso di opportunità, di avere il proprio destino nelle proprie mani, poter scorgere all’orizzonte prospettive migliori per se stessi e i propri figli.

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